Freaks

Il film capostipite di ogni riflessione sul mostruoso al cinema, un magistrale saggio in immagini, ancora oggi ineguagliato, sul lato oscuro della natura umana.

Due sono i concetti cardine attraverso i quali si può tentare un approccio – deferente e circospetto, vista l’entità dell’opera filmica in esame – a Freaks di Tod Browning, capolavoro del 1932: quello di identità del soggetto umano e quello di mostruoso.

Nel primo caso, la psicanalisi freudiana (senza dimenticare il fondamentale contributo lacaniano, specie nell’elaborazione della cosiddetta “fase dello specchio”) argomenta il costituirsi dell’Io attraverso una serie di momenti formativi, che corrispondono ad altrettanti stadi dello sviluppo della personalità e della coscienza, e che conducono il “piccolo d’uomo” verso l’età adulta.

In questo percorso di crescita e mutazione, assume rilevanza decisiva la fase dello specchio, in cui il bambino fra i sei e i diciotto mesi d’età è finalmente in grado di riconoscersi in quanto distinto dall’adulto che lo tiene in braccio. Se nel primo periodo di vita il bambino fa esperienza del proprio corpo a frammenti, sulla base del proprio campo visivo e del contatto tattile con gli oggetti che lo circondano, quando viene collocato dinanzi allo specchio “primordiale” si ritrova di fronte a un’immagine che ne riflette le sembianze e gli permette di percepire per la prima volta il su viso assieme al corpo intero: l’affiorare del primo barlume – istintuale e intuitivo fin che si vuole – di identità; un’identità, dunque, che transita in modo determinante attraverso lo sguardo. Può essere utile rimarcare, in questa sede, la centralità del vedere per l’uomo – perlomeno per quello incivilito e non più cacciatore, non più necessitato a muoversi nelle tenebre o all’esangue luce della luna per procacciarsi di che sopravvivere, essendo ormai abituato agli agi della tecnica e della stanzialità – come attività fondativa di ogni conoscenza e rapporto col mondo. È in tale attività che si delinea il protendersi dell’uomo stesso verso le cose nelle vesti di soggetto assoluto, portatore dell’illuminazione del logos nel caos della materia e, tramite l’attività raziocinante, proprio in virtù di tale capacità di muoversi fra gli enti ordinandoli nell’unità del senso e nella stabilità della forma (a partire innanzitutto dall’e-idos e dall’idea platonici, cioè l’e-videnza e la veduta immutabile, vale a dire ciò che si dà stabilmente alla vista e all’intelligenza), egli è in grado di cogliere un’altra fondamentale unità, quella dell’Io, cioè la propria monolitica identità. Un’identità che però vacilla in tale illusoria compattezza per poi sgretolarsi con l’incombere dell’irrazionale, della pulsione, dell’animalità costitutiva della natura umana, con tutto il loro ingombrante fardello di ossessioni, incertezze, fantasmi e paure.

Individuare le forme durevoli all’interno del caos, isolarle e poi mutarle in concetti eterni e incorruttibili per organizzarle in una cornice di senso e proporzione non è altro che il persistente tentativo di costruire un universo antropocentrico, nel quale, se non nell’orizzonte dell’esistenza, almeno in quello del pensiero ogni squilibrio sia bandito. Il grande abbaglio consiste però proprio nel separare il razionale dall’irrazionale, l’ordine dal disordine, l’armonia dalla dissonanza, nel ritenere che oltre i confini del pensiero logico si collochino esclusivamente illusioni e ombre da abbandonare al loro destino. Il fatto è che il loro destino è anche quello di ogni vivente, il quale, presto o tardi, con o senza l’ausilio dell’intelletto regolatore, terminerà il proprio percorso sulla terra nel silenzio e nell’oblio, andando a rinfoltire le schiere di quelle illusioni, di quelle ombre; e così, anche l’incerta identità dell’Io si dissolverà immediatamente. Il pensiero e l’organizzazione logico-razionale del mondo possiedono quindi una forte valenza apotropaica, che si esprime nel relegare ciò che non si comprende e che, proprio per questo, massimamente atterrisce e sgomenta, ai margini della coscienza, nelle latebre incerte e oscure dell’inconscio e del rimosso.

Se la morte rappresenta l’esito ultimo e più temuto dell’esistenza, innumerevoli sono i segni che essa dissemina come perenne memento per le creature terrene; tali segni indicano, più o meno direttamente, che il fragile castello di certezze su cui si fonda la sopravvivenza umana sulla terra può rovinosamente crollare da un momento all’altro.

Il mostruoso, proprio per il suo palesarsi come de-forme (il declinare della forma), in-forme (l’assenza, o tutt’ al più l’abbozzo appena accennato, di una forma determinata), a-morfo (ciò che è privo totalmente di forma), non è altro che uno dei prodromi più marcati e inquietanti del conflitto fra ciò che si configura come pietra angolare della nostra esperienza lineare dell’esistenza, cioè appunto la forma stabile, e ciò che ne mina alla base la tenuta. L’uomo teme il mostruoso, quindi, perché scompagina l’orizzonte di senso su cui si basano le difese nei confronti delle proprie paure ancestrali, ma anche e soprattutto perché esso funge da specchio deformante, che restituisce un’immagine anomala eppure inquietantemente familiare, lontana eppure contigua, di una corporeità che egli non riesce a riconoscere del tutto e a cui teme, però, presto o tardi di assomigliare, con l’incombere della vecchiaia e della malattia, che della morte sono le ancelle. Nonostante tutto, però, il mostruoso non risulta marcato esclusivamente da avversione, bensì anche da una morbosa fascinazione, che solo la coappartenenza reciproca di Eros e Thanatos, dell’istinto di vita e di quello di morte, possono parzialmente chiarire.

Freaks, fin dal suo primo apparire, porta a compimento una riflessione ad ampio spettro – e tutt’ora ineguagliata, nonostante le innumerevoli opere filmiche di cui fu ed è origine e modello – proprio sulle differenze e le affinità fra normale e mostruoso, fra abiezioni fisiche e anomalie della psiche o del comportamento, istituendo un confronto serrato fra il mondo dei “normali” e quello adiacente e prossimo, ma anche abissalmente distante, della deformità, in quella realtà di confine rappresentata dal circo.

Certamente, per Browning (che conosceva bene sia il circo che il vaudeville, frequentati in gioventù svolgendovi le attività più disparate: clown, illusionista, cadavere vivente, acrobata, contorsionista) quello circense è un microcosmo autonomo, nel quale vigono un’altra morale e altre norme rispetto a quelle del consorzio civile, e in cui virtù comunemente accettate come consuetudine, ordine, armonia, equilibrio cambiano di segno, venendo brutalmente sostituite non tanto dai loro opposti, quanto da corrispondenti categorie valoriali semplicemente diverse nel contenuto rispetto a quelle della realtà istituzionale e giuridicamente regolata. Ecco allora che gli emarginati dalla comunità umana, i freaks, all’interno del circo formano una collettività unita e fortemente attaccata a precetti ancestrali e pre-civili: nessun patto sociale li lega, bensì un patto di sangue, nel quale ciascuno è re e suddito, e in cui vige una incrollabile solidarietà fra tutti i membri.

Al contrario, i componenti “normali” di quella bizzarra realtà non rientrano nel patto di sangue, non hanno cittadinanza effettiva, non sono membri attivi della comunità e, se alcuni di loro come il clown Phroso (Wallace Ford), la ballerina Venus (Leila Hyams), o Madame Tetrallini (Rose Dione) intrattengono ottimi rapporti di cordialità e solidarietà con la società dei freaks, altri come la trapezista Cleopatra (Olga Baclanova) e il suo amante Hercules (Henry Victor) li trattano con repulsione e disprezzo malcelati, come se il mondo in cui si trovano a vivere e operare fosse ancora quello esterno, con le sue leggi e gerarchie.

Nel mondo circense – almeno in quello arcaico e selvaggio raffigurato da Browning – non esiste distinzione fra vita e rappresentazione, fra palcoscenico e dietro le quinte, tanto che il regista non sente la necessità di mostrare le esibizioni dei suoi personaggi di fronte al pubblico e sceglie di raccontare l’ossimoro della straordinaria quotidianità dei freaks, che per natura sono costretti a vivere un’esistenza costitutivamente e continuamente spettacolare, anche loro malgrado. Anche perché, poi, gli unici spettatori che veramente contano per Browning, in questo caso, sono quelli della sala cinematografica [1]. Non vi è quindi motivo per realizzare un finto freakshow su un finto palcoscenico per scopi narrativi, quando il film è già documento e traccia di un freakshow autentico in cui i mostri protagonisti sono semplicemente ciò che sono [2], senza trucchi o inganni, nell’indissolubile legame fra realtà e finzione che li esalta e condanna a essere un’esibizione vivente e permanente.

Nonostante la possibilità di giocare facile con l’ob-sceno, Browning ama le proprie creature e, dopo aver perso il proprio attore-feticcio, “l’uomo dai mille volti” (e corpi) Lon Chaney, scomparso prematuramente nel 1930, decide di rivolgersi non più al make-up o alla recitazione, bensì alla natura stessa, e ne trae una vicenda commovente e perversa, un grottesco e straniante melodramma colmo di perfidia e lealtà, collera e malinconia, in cui il pregio maggiore si situa probabilmente nella rara (allora come oggi) capacità di mantenere sempre la giusta distanza nel raffigurare i propri teneri e furiosi eroi.

Pur affascinato dalle proprie creature, Browning le osserva con l’occhio accorto dell’entomologo, attento e acuto, ma senza patetismi di sorta; l’emozione non deriva bassamente dalla parata di “mostri”, bensì dalla sagacia con cui vengono tratteggiati i loro sentimenti e la loro quotidianità, e poi dal conflitto con l’interiorità perversa dei due antagonisti normodotati, Cleopatra ed Hercules.

Anche in quest’ultimo caso, però, Browning evita di giocare facile e, anziché istituire la comoda dicotomia fra brutto/buono e normale/cattivo, sceglie la strada della complessità narrativa, oltre che stilistica. I tradimenti da parte di Cleopatra nei confronti del nano Hans (Harry Earles) – da lei irretito e poi sposato per via delle di lui fortune, in combutta con Hercules – col tentativo di avvelenarlo progressivamente, senza dimenticare gli insulti profferiti dalla donna nella celeberrima sequenza del banchetto nuziale nei riguardi dell’intera comunità dei freaks che la stavano gioiosamente accogliendo, sono la molla che scatena la furia cieca dei compagni di Hans, che li porta a mutilare la donna e a pugnalare Hercules [3]. Brutti, ma anche cattivissimi alla bisogna (una cattiveria pura e assoluta, come può essere solo quella fanciullesca, senza le sovrastrutture dei calcoli e delle strategie tipiche degli adulti), oltre che uniti da una lealtà reciproca che ha un sapore tribale e barbarico. Forse è stata proprio quest’ultima serie di elementi a disturbare di più le “belle anime” dell’epoca (spettatori e censori), cioè la non addomesticabilità dell’Altro, del diverso, dell’Untermensch che la società colloca ai margini, escludendolo dalla vita sociale e riaccogliendolo solo come fenomeno da baraccone. Freaks, oltre a tutto il resto, è un film che rigetta proprio l’idea colonialista e dispotica dell’integrazione come normalizzazione, come innocuo assorbimento dell’outsider, che rimarrà comunque tale, sia pure in un contesto istituzionalizzato, in cui la sua diversità sarà assimilata senza traumi dal tessuto sociale.

A partire da queste considerazioni è possibile individuare un altro elemento di interesse, nella pellicola di Browning, che riguarda il ruolo dello spettatore. In un racconto in cui mancano figure eroiche di immediato impatto, sulle quali far defluire le dinamiche dell’identificazione secondaria, l’astante si trova nella scomoda e straniante posizione di parteggiare per qualcuno che non gli somiglia né che può coincidere con un modello etico-estetico particolarmente accattivante. E se, com’è inevitabile, le figure di Cleopatra ed Hercules fanno presto ad attirarsi gli strali degli spettatori, assai più complesso risulta l’instaurarsi di una empatia totale coi freaks. Eppure, per qualche strana alchimia, almeno dai tempi della rivalutazione della pellicola (primi anni ’60, all’incirca in coincidenza con la morte di Browning), il rapporto fra spettatori e freaks funziona per lunghi tratti del racconto - sia pure con inquietanti oscillazioni e repentini cambi di prospettiva a cui contribuisce non poco la regia di Browning. Due momenti su tutti: la sequenza del banchetto nuziale e quella della vendetta ai danni di Cleopatra ed Hercules.

Nella prima, la sintassi filmica modifica progressivamente la propria struttura e, assieme ad essa, la collocazione dello spettatore: la prima inquadratura si apre con un campo lungo, con totale della tavolata del banchetto; rispetto al punto di osservazione, Cleopatra siede sullo sfondo ed è ripresa frontalmente, fra Hercules alla sua destra e il novello sposo Hans alla sinistra; poi inizia il duello fra le inquadrature delle azioni di Cleopatra – alternativamente mostrata mentre flirta apertamente con Hercules o mentre motteggia il novello sposo e gli altri commensali – e quelle dei vari partecipanti al banchetto. Mano a mano che ci si avvicina al momento culminante in cui i freaks intonano il mantra rituale di accoglienza per la nuova venuta (“Gooble gobble, gooble gobble, we accept you! One of us, one of us!”) e il nano Angelino (Angelo Rossitto) si avvicina progressivamente alla donna per portarle la coppa in cui ella dovrà bere per ultima per suggellare il matrimonio-patto, inizia un nuovo duello, questa volta fra la soggettiva di Cleopatra che guarda la tavolata e il controcampo/oggettiva o nobody’s shot che inquadra la donna. Una volta che Cleopatra rimane l’unica a non aver ancora brindato, la soggettiva si trasforma in una semi-soggettiva, il punto di osservazione slitta e “prende le distanze” da Cleopatra per poi tornare a occupare la posizione di partenza, allorché ella prende la coppa dalle mani di Angelino: quando Cleopatra insulta i commensali deformi e getta in faccia ad Angelino il contenuto della coppa, si tratta nuovamente di una soggettiva. La complessità sintattica della sequenza porta lo spettatore a un vero tour de force visivo ed emotivo, in cui l’identificazione è resa disagevole perché viene in buona parte a coincidere col (moralmente meschino) punto d’osservazione di Cleopatra; quando i freaks, nella conclusione della sequenza, guardano verso (contro?) l’obiettivo, stanno scrutando direttamente lo spettatore, implicitamente accusandolo.

La seconda sequenza è invece quella della vendetta finale dei freaks e, anche in questo caso, la sintassi filmica risulta assai articolata.

Mentre il circo itinerante si sposta sotto una pioggia torrenziale, si assiste alle ultime battute della vicenda: Hans, dopo aver scoperto che la moglie lo avvelena (probabilmente l’ha capito da un pezzo), decide di minacciarla, all’interno del carrozzone condiviso con lei, tramite l’aiuto di alcuni compagni armati di coltelli e pistole. Poi prende forma il frenetico finale fra scrosci di pioggia, lampi che rompono l’oscurità e scoppi di convulsa violenza, più evocata che mostrata. Se nella sequenza ancora situata all’interno del carrozzone di Hans e Cleopatra, i freaks vengono inquadrati dall’alto, da un punto di vista ancora marcato dalla supposta superiorità del normale sull’imperfetto (soggettive o semi-soggettive ancora una volta di Cleopatra), il finale vero e proprio, con l’avanzata letteralmente strisciante dei deformi esseri in cerca delle proprie vittime, corrisponde invece a una worm’s-eye view, una ripresa dal basso, in questo caso ad altezza di freak; i vendicatori hanno definitivamente abbandonato ogni sudditanza e avanzano verso il confine che separa lo schermo dalla sala, verso lo spettatore, non più accusandolo soltanto, bensì minacciandolo.

In entrambe le sequenze esaminate, è ben chiaro che la condizione spettatoriale: lungi dall’essere placidamente adagiata nella comoda posizione di parteggiare automaticamente per i deboli (che tali non sono), essa viene continuamente collocata fuori asse, resa asimmetrica, punteggiata di storture e spiazzamenti. Al di là di fatuità prospettiche e analisi affrettate (che collocherebbero l’intera empatia dell’osservatore, passivamente e senza oscillazioni, dalla parte dei “mostri buoni”), Freaks demolisce ogni certezza identitaria o morale, ogni barlume di ricomposizione pacifica o di integrazione consolatoria, giacché la mostruosità, non importa se esteriore o interiore, è componente fondamentale della natura dell’uomo e rifiuta le mezze misure, i compromessi, senza essere capace di guardarsi allo specchio, di riconoscersi. Freaks in definitiva è un saggio magistrale sul perturbante, quindi su ciò che ci appare estraneo, pur appartenendoci costitutivamente e vibrando nel mistero della nostra coscienza, un mistero che troppo spesso e colpevolmente tendiamo a rimuovere dal nostro orizzonte.

[1] Spettatori che, alle prime uscite del film, gradiranno ben poco la loro scomoda posizione: strano davvero, dato che, all’epoca, molti erano invece quelli che affollavano le platee circensi o le sale del vaudeville per gustarsi i “freaks of nature” dal vivo.

[2] Il circo delle meraviglie di Madame Tetrallini annovera fra gli altri: la donna barbuta, Koo-Koo la donna-uccello, l’uomo-torso vivente, le gemelle siamesi, la microcefala Schlitzie, le due sorelle “capocchia-di-spillo”, la donna senza braccia o “Venere di Milo vivente”, il “mezzo uomo/mezza donna” e svariati altri fenomeni più o meno marcati dello humour nero di Madre Natura.

[3] Nella versione concepita in origine, Hercules avrebbe dovuto essere evirato dai freaks, conducendo a un doppio contrappasso: Cleopatra, che rifiuta di essere parte della comunità dei freaks, diviene forzatamente una di loro, e il virile Hercules sarebbe divenuto anch’egli un fenomeno da baraccone, esibendosi in falsetto come cantante castrato.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 24/10/2016

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