Fleabag

Il racconto di una vita alla deriva, in chiave comedy: provocatorio, spietato e pieno di pathos.

I have a horrible feeling that I’m a greedy, perverted, selfish, apathetic, cynical, depraved, morally bankrupt woman who can’t even call herself a feminist” “Well, you get all that from your mother

Raccontare cosa significa essere una donna, nella contemporaneità, sembra essere una delle cose che interessa di più alla serialità odierna. Da catalizzatore di stereotipi, la televisione sta diventando gradualmente un luogo di approfondimento e discussione dominato da un’ondata di autrici che scrivono e interpretano personaggi femminili che rompono le regole dei ruoli dello star system.

Molte delle migliori comedy e dramedy degli ultimi anni, e in particolare del biennio 2015/2016, ruotano attorno a protagoniste femminili in differenti fasi della vita e in differenti contesti, legati dal fil rouge della riflessione sull’identità femminile da parte delle donne stesse: la Lena Dunham di Girls, Amy Schumer, Ilana Glazer e Abbi Jacobson di Broad City, Pamela Adlon con Better Things ma anche Rachel Bloom con Crazy Ex Girlfriend e Tig Notaro con One Mississipi.

Una metamorfosi naturale ma piuttosto repentina, che probabilmente solo in un panorama di peak tv come quello che stiamo vivendo poteva trovare spazio, ma che riflette anche in pieno la realtà estremamente contraddittoria che ci circonda. Un mondo in cui metà della popolazione ride con i meme su Tiziana Cantone ed è neanche troppo segretamente compiaciuto dalle affermazioni sessiste di Donald Trump, mentre l’altra metà discute di body shaming e di quanto Beyoncé sia una bad o una good feminist è infatti un contesto in cui il racconto del femminile è forse l’argomento più critico e urgente da approfondire.

La TV, specchio del momento storico, accompagna il cambiamento della realtà scegliendo di produrre show in cui le donne escono dalla gabbia del likable character per diventare eroine e antieroine sfaccettate, comiche, tragiche, piene di quelle contraddizioni una volta riservate soltanto ai personaggi maschili.

La BBC sceglie di inserirsi in questo contesto con i sei episodi di Fleabag, creato e interpretato dalla talentuosa Phoebe Waller-Bridge (e tratto da una sua omonima pièce teatrale, che dopo il successo dello show probabilmente tornerà in scena a breve nei teatri londinesi), una comedy narrata in prima persona e intrisa di uno humor nerissimo e provocatorio.

La parola Fleabag racchiude un concetto estremamente british, ma si potrebbe tradurre in italiano con “sacco di pulci”: descrive una persona sgradevole, disprezzabile, di infimo ordine; un’espressione che lascia poco spazio all’immaginazione, che non solo dà il titolo allo show ma è anche l’autodescrizione della protagonista; una parola che ne rappresenta a tal punto la sintesi come individuo, come donna, come familiare e come amica, che di lei non conosciamo mai il vero nome. Conosciamo solo questo soprannome, che corrisponde all’intima percezione che ha di sé stessa.

Fleabag è una single thirty-something londinese che ribalta tutti gli stereotipi di auto-miglioramento alla Bridget Jones, comportandosi come se non ci fosse un domani e nulla importasse, compresa la propria felicità e soddisfazione. Egoista e autodistruttiva fino al parossismo, maltratta il fidanzato, deruba la matrigna, disprezza la sorella e il padre, trascura il suo locale e si indebita, fa sesso casuale e poco gratificante con uomini che non le piacciono (“I’m not obsessed with sex, I just can’t stop thinking about it. The performance of it. The drama... Not so much the feeling of it”).

Un’antieroina quindi, a prima vista nulla di così originale nell’attuale panorama seriale, in cui sembra divenuto impossibile raccontare storie “normali” e personaggi positivi ed equilibrati, come se la catarsi di chi guarda dovesse per forza nutrirsi di eroi al limite, che compiono azioni orribili e ne pagano le conseguenze ma la cui caduta sia sempre imputabile al vizio o alla debolezza usati per costruire interesse intorno a un personaggio.

E Fleabag di sicuro compiace questo gusto per la bassezza, assecondando la voglia dello spettatore di vedere sempre di più, sempre peggio: narratore e attore al tempo stesso, la protagonista parla direttamente alla telecamera non per raccontarsi, ma per cercare il consenso; ad ogni pessima azione commessa fa seguire un sorriso da monello soddisfatto, ad ogni perdita di dignità una strizzata d’occhio, ad ogni scelta autolesionista un commento sarcastico che ci rende complici, partecipi delle sue motivazioni e dei suoi pensieri.

Un annullamento della quarta parete che da una parte va ascritto alle convenzioni del teatro d’improvvisazione (la pièce teatrale della Waller-Bridge era infatti originariamente concepita come stand-up comedy) e dall’altra annulla la distanza col pubblico non solo in termini finzionali, ma anche morali; Fleabag ci parla sostanzialmente per innescare la nostra complicità, per stimolare la nostra partecipazione, la nostra immedesimazione, per farsi “perdonare” - non è un caso che sia lo stesso meccanismo di messa in scena che ha reso Frank Underwood un villain così popolare – ma soprattutto per perdonare sé stessa.

Ciò che rende infatti la protagonista un’antieroina, ma non banalmente cattiva né auto-compiaciuta, si scopre gradualmente col procedere degli episodi, man mano che la patina da bad girl si sbiadisce emergono le sue fragilità e iniziamo a comprenderla davvero.

Con un tono sempre cinico, in bilico tra commedia e drama, Fleabag si svela sempre più in profondità attraverso gli occhi degli altri, i flashback del passato recente e le interazioni con chi la circonda; in particolare con le altre donne come la sorella nevrotica Claire, la migliore amica morta, l’odiosa stepmother.

Man mano che capiamo cos’è andato storto nella sua vita il racconto si fa più complesso, meno facile da comprendere e molto più carico di potenzialità empatiche perché la ferocia con cui punisce sé stessa per far fronte a un senso di colpa indescrivibile – le cui vere ragioni diventano davvero chiare soltanto nei minuti finali dell’ultimo episodio – è qualcosa in grado di toccare nel profondo, non soltanto le donne ma chiunque si sia mai trovato a fare i conti con l’elaborazione del lutto e il disprezzo per sé stessi che seguono un errore irreparabile e apparentemente imperdonabile.

Perché la vera forza di Fleabag, così come degli altri ottimi show scritti da donne che la TV ci offre in questo momento, è la carica di universalità della loro riflessione.

Una riflessione che parte dal ruolo della donna per decostruirlo, smitizzarlo, attualizzarlo e poi ricostruirlo con una profondità inedita, con la volontà di rielaborare il racconto spostandolo su un piano universale, slegato dalle specificità di genere e invece strettamente connesso con l’approfondimento di uno o più protagonisti dall’unicità inconfondibile.

In questo modo le autrici, pur mantenendo un punto di vista estremamente acuto nell’indagare la prospettiva sociale e culturale delle donne, escono dagli stretti confini delle storie “al femminile” per mettere in scena qualcosa di nuovo: il racconto di un’essere umano.

Autore: Eugenia Fattori
Pubblicato il 16/10/2016

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