Fargo - Stagione 2

Noah Hawley fa tesoro degli insegnamenti dei Coen, consegnandoci un’archetipica storia di violenza nel Midwest americano

Eccolo il famoso “massacro di Sioux Falls” di cui parlava Lou Solverson (Keith Carradine) nella prima stagione di Fargo. Non lo stesso massacro cui si riferiva il padre di Molly nel tentativo di ricordare un episodio equiparabile all’ondata di violenza scatenata da Lorne Malvo (l’indimenticabile Billy Bob Thornton), ma uno scherzo del narratore, un inserto apparentemente esogeno e avulso che nasce in realtà per uno scopo ben preciso. La lenta carrellata laterale con cui si apre la seconda stagione della serie tv ideata da Noah Hawley e prodotta dai fratelli Coen non è il massacro che ha cambiato la vita a Lou, ma l’incipit di un finto film in b/n della MGM, con un campo di battaglia disseminato di corpi di soldati e indiani e un infreddolito quanto infastidito capo tribù che attende con impazienza l’entrata in scena della star: l’attore e futuro presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan.

Lo stanno ricoprendo di frecce perché, ferito come si conviene, possa fare il suo eroico ingresso in una scena desolante, immobile, mortifera come l’America del post-Vietnam, della crisi energetica, della rivoluzione khomeinista in Iran e dell’intervento sovietico in Afghanistan. Fuori dallo schermo, l’America intera attende il suo arrivo per lasciarsi alle spalle la “crisi di fiducia” di cui aveva parlato schiettamente il suo predecessore, Jimmy Carter, nel famoso discorso del 1979 che accompagna il montaggio d’apertura della seconda stagione, fissandone dinamicamente il quadro temporale anche grazie all’utilizzo di vere e proprie gemme musicali dell’epoca e ad un uso massiccio dello split screen tanto in voga in quegli anni (basti pensare a De Palma)

Gli americani avevano visto il loro dollaro soffrire amaramente per una inaccettabile dipendenza dall’Opec, sopportato file interminabili per un po’ di benzina, assistito increduli alla presa degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran (raccontata nel 2012 da Ben Affleck in Argo). L’errore di Carter fu spiegare accuratamente ciò che era accaduto con la crisi energetica del ’73, cercando la verità nel passato e mostrandola senza infingimenti. Reagan, invece, scelse di forgiare verità nuove di zecca, direttamente dal futuro: l’America desiderava ardentemente una nuova storia in cui poter essere protagonista del proprio destino. “Ronnie”, sapeva come raccontarla. E Hawley e il tuo team non sono – lo avevano già ampiamente dimostrato con la prima stagione – certamente da meno.

Gran parte della struttura drammaturgica di Fargo si poggia sulla tensione tra le storie di cui i vari personaggi vorrebbero sentirsi positivamente partecipi e ciò che gli altri effettivamente pensano e raccontano sul loro conto. “I’m a man” asserisce implorante Rye (Kieran Culkin), il più piccolo dei figli di Otto Gerhardt (Michael Hogan), capo dell’omonima famiglia che controlla gran parte dei traffici illeciti del Midwest settentrionale. “You’re the comic in a piece of bubble gum”, gli risponde sprezzante il fratello maggiore, Dodd (Jeffrey Donovan). Un fumetto minuscolo ed insignificante da scartare per arrivare all’agognata gomma da masticare, un Bazooka Joe fatto di battute per bambini e piccole pubblicità per un merchandising piuttosto kitsch.

In un istante, Rye percepisce l’inezia della sua storia e decide che è il momento di dare una svolta. Lo fa, in pieno fargo-style, finendo per complicarsi ironicamente, ed enormemente, la vita con un atto violento: un triplice omicidio nello Waffle Hut di Luverne, Minnesota, che diventerà il crocevia narrativo dal quale si articolerà il grosso del succoso tessuto drammatico.

La strage di Rye non è dissimile dall’assurdo progetto del Jerry Lundegaard del film, che faceva rapire la moglie per intascare il riscatto pagato dal suocero, o come lo scatto d’ira del mediocre Lester Nygaard che nella prima stagione uccideva a martellate l’odiata consorte. I Coen – e in questo gli sceneggiatori della serie sono stati alquanto fedeli allo spirito della produzione filmica dei due fratelli – sono sempre stati convinti che un crimine, anche il più efferato, visto da una certa prospettiva possa diventare commedia, e contenga sempre in sé un risvolto comico. La violenza è ovunque ed è sempre, per così dire, attesa; ma non colpisce mai esattamente quando e dove dovrebbe, non porta mai a conseguenze facilmente ipotizzabili. È, piuttosto, figlia del caso, ineluttabilmente connaturata alla natura umana. La violenza accade perché, come la morte, è nell’ordine delle cose. E quindi, Allen docet, si può soltanto riderne, arrendersi con ironia alla sua inevitabilità.

Il “sangue facile” dei Coen macchia, anche nella serie tv, il candore del “Minnesota nice”. Si prende gioco, dualisticamente, di quella che, nella superficialità delle storie che continuiamo a ripeterci, è l’educata umanità del Midwest americano, ma che, dietro l’apparenza nasconde lo stesso lato oscuro che è parte integrante di ogni essere umano. Non è un caso che proprio il Midwest sia il teatro di una tale, invereconda, rivelazione. Nel suo The middle west: it’s meaning in american culture (1989), il geografo culturale James Shortridge scrive che “l’esperienza del Midwest è sempre stata strettamente legata a quella americana in generale, e spesso viene considerata il vero luogo di nascita della nazione e il suo fulcro culturale”. Franzen e Wallace ne sono un chiaro esempio in letteratura.

In molte interviste lo showrunner Noah Hawley ha ribadito la sua intenzione di trattare ogni stagione di Fargo come un capitolo di un libro sulla violenza ambientato proprio nel Midwest e il penultimo episodio della seconda serie, The castle, non lascia più alcun dubbio a riguardo. La storia che abbiamo guardano sinora e che volge al termine non è altro che il quattordicesimo capitolo di un fantomatico libro illustrato :“The history of true crime in the Mid West”, un testo che si prefigge di offrire una cronistoria dei grandi crimini “avvenuti in Minnesota, Wisconsin, Iowa, Nebraska, Nord e Sud Dakota”. Il “massacro di Sioux Falls”, che nel testo diventa “il capitolo forse più sanguinoso nella lunga e violenta storia della regione”, è allora una creazione a metà strada tra cronaca e finzione narrativa, tra realtà storica e invenzione creativa, tra testo e significato allegorico. È il massacro dei nativi americani, l’incurante iniquità del capitalismo, il crimine di strada, un brivido di follia. È l’archetipo stesso della violenza che può assumere infinite vesti, palesandosi in un gesto inconsulto, in una bufera che sconquassa le nostre esistenze così seriose (come in quel manifesto della filosofia dei Coen che è A serious man). Nella seconda stagione di Fargo, questa veste, realizzata con rara maestria su tutti i livelli, è più mozzafiato che mai.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 19/05/2016

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