Dossier Steven Spielberg / L'idea del Cinema

L'autore simbolo della Hollywood moderna rivisto come se fosse la prima volta, tra forme e caratteristiche espressive che si fanno emotività

Per le generazioni cresciute negli ultimi quattro decenni, Steven Spielberg è, semplicemente, il Cinema.

Non un narratore, un regista o un autore, per quanto egli sia, senza dubbio, anche tutte queste cose. E’ un’idea (platonicamente intesa), un modello estetico e filmico che si è fatto immaginario, influenzando chi è venuto in seguito, e marcando la differenza fra un prima e un dopo: un paradigma di cosa significa raccontare per immagini – e di quanto l’immagine in sé sia il paradigma di se stessa per quanto attiene alla capacità di generare a catena emozioni e forme del racconto. Il bello è la natura istintiva di questo processo: per noi esegeti e spettatori fin dalla prima ora delle sue opere, è naturale considerare Spielberg in termini paradigmatici, allo stesso modo in cui il regista non lo fa: la forza del suo cinema (del Cinema) è proprio la sua mancanza di alibi. E’ un cinema che non cerca di essere modello. E’ diverso, in tal senso, da colleghi come George Lucas o Robert Zemeckis, che riflettono sugli archetipi in modo più consapevole (e, anche per questo, altrettanto straordinario). Nel suo sguardo persiste invece la purezza di chi vuole instaurare un dialogo aperto con lo spettatore, per condividere con lui un sentimento, un’emozione: il resto è pura conseguenza del talento. E’ un cinema dove il personalismo innato dello sguardo si sposa con un’idea – prettamente americana – della comunità (nel senso più cinematografico del termine, appunto, quello di John Ford).

Spielberg, in questo senso, è un epigono, oltre che un apripista, un cinefilo prima ancora che un autore: non di quella cinefilia esibita che pure dopo di lui diventerà predominante nel cinema. Il suo stare a metà di due mondi (quel prima e quel dopo enunciati in precedenza) gli permette infatti di essere devoto nelle citazioni, ma sempre discreto, non esibito, sempre con un occhio attento alla completa funzionalità del racconto, perché l’omaggio non si esaurisca in se stesso, ma sia parte di un disegno più grande. In questo senso, la sua opera è postmoderna e classica allo stesso tempo, un ideale ponte tra John Ford e Joe Dante, ma anche fra la Vecchia Hollywood e i B-movie, con il piacere del genere e la forza del cinema più ricercato. Sa prendersi sul serio, ma lascia spesso trasparire un grande divertimento, per chi lo fa e per chi guarda.

Il rischio, con una materia tanto enorme quanto delicata, è dunque quello di razionalizzare troppo, di riportare sulla terra ciò che è pensato per essere puro piacere della messinscena, della narrazione e della forza mitopoietica delle singole immagini.

Perché un dossier su di lui allora? Proprio per contrastare la desertificazione emotiva provocata dall’eccesso di razionalizzazione, di non comprensione formale che ha finito per guardare allo Spielberg tycoon dimenticando l’autore. Se Spielberg è il Cinema, in fondo, è facile cadere nella trappola della spersonalizzazione e dell’identificazione uomo-sistema. Di qui le accuse di furbizia, di essere un “regista-industria”, i continui distinguo del caso... Spielberg, incredibile a dirsi, è in questo senso un regista sottovalutato, un po’ rimosso, quasi scomodo: un ingombrante dinosauro con cui si ha a che fare in modo inerziale, quasi per dovere più che altro.

La sfida è dunque quella di attuare un processo a ritroso, lontano dal chiacchiericcio spicciolo, per riscoprire quelle qualità precipue che accompagnano il regista ogni volta che arriva sul set, pronto a giocare con i meccanismi della creatività. Perché scrivere di Steven Spielberg significa confrontarsi con la più straordinaria ipotesi di cinema dell’era contemporanea, anche quando le barriere del visibile si sono spostate in avanti e l’industria ha preso altre strade. Significa ragionare ancora una volta di forme e caratteristiche espressive che si fanno emotività. E, va da sé, vuol dire anche riflettere sul percorso del cinema negli ultimi quarant’anni, dalla New Hollywood alle fughe in avanti verso altre narrazioni e ambiti. Nel cinema di Steven Spielberg, in fondo, c’è già la moderna serialità televisiva: ce lo ricordano gli esordi sul piccolo schermo, la regia dei piloti per serie celeberrime come Colombo o per Mistero in galleria, che rievoca l’apprendistato alla scuola di Rod Serling. Da lui il giovane Spielberg ha sicuramente preso la capacità di unire ricerca formale e lucidità nello stare dentro agli argomenti trattati: ancora una volta gioco e serietà insomma.

Il tutto fino all’approdo a Duel, che permette all’Idea di diventare finalmente Cinema e al nostro percorso di iniziare...

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 13/10/2015

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