Dossier Steven Spielberg 21 / Raiders of the Lost Cinema: la tetralogia di Indiana Jones

Archeologia del cinema e del mito, ovvero ripercorrere la storia di Indiana Jones e di una delle più grandi forme dello spettacolo americano

«Credo sia stato uno dei momenti più belli della mia vita il set de I predatori dell’Arca Perduta. È stato un “cliffhanger” ritornate alle matinée del sabato mattina quando a 10 anni vedevo i serial della Republic… avere poi l’opportunità di rifare uno di quei serial in technicolor e sul grande schermo. Che opportunità!».

Indiana Jones nasce dai ricordi dell’infanzia. Indiana Jones presuppone uno stupore fanciullo. Indiana Jones segna non a caso l’incontro ravvicinato tra due delle più influenti personalità della Hollywood contemporanea: Steven Spielberg e George Lucas, il bambino prodigio e l’imprenditore/cineasta, a riprova di una sensibilità comune che (in)volontariamente aprirà le porte alla galassia lontana-lontana del postmodernismo anni ’80. Il punto limite della New Hollywood tocca l’era del Blockbuster e la origina: Lucas e Spielberg riscrivono le regole del gioco (produzione e distribuzione dei film non saranno più le stesse dopo Lo squalo e Star Wars), riportano in auge le Major e la loro memoria classica (i generi, la serialità, le avventure esotiche, i buoni contro i cattivi, ecc) e per qualcuno (come gli amici John Milius e William Friedkin) “uccidono il sogno di indipendenza della New Hollywood”… o più probabilmente fanno sopravvivere il cinema americano in una nuova era.

Nato come progetto veloce, da girare in fretta, come si faceva per i serial d’avventura targati Republic negli anni ’30, l’idea di Indiana Jones cresce nella mente di Lucas contemporaneamente a Star Wars e con la stessa filosofia di fondo: «American Graffiti era un film per sedicenni, e forse Guerre Stellari è un film per bambini di dieci o dodici anni: mi sono semplicemente reso conto che i bambini degli anni ‘70 non avevano più i western, i film di pirati, le avventure di Errol Flynn o John Wayne». C’è bisogno di aggiungere altro?

Steven Spielberg accetta di buon grado la proposta dell’amico di dirigere il serial e ci aggiunge la sua passione per i B movies e il suo modo artigianale (in pieno stile Amblin) di concepire la bottega-cinema. I predatori dell’arca perduta (1981) diventa così l’epitome dei nascenti anni ’80: monumento all’intertestualità in cui convivono una miriade di riferimenti incrociati, configurando la trasmigrazione del (cinema) passato in Spettacolo ultra-popolare declinato furiosamente al presente. Questa è la risposta di Lucas/Spielberg al definitivo «the horror, the horror» del Kurz coppoliano, o all’apocalisse produttiva dei cancelli del cielo ciminiani. I predatori (ancor più di Star Wars) riallaccia i fili con la Hollywood di John Huston e Michael Curtiz – del resto la recitazione di Harrison Ford è chiaramente ispirata ad Humphrey Bogart e il suo rapporto con Nancy Allen è costruito sui celebri battibecchi con la divina Katherine Hepburn – ricordandoli con consapevole ironia ma scartando costantemente verso un nuovo immaginario tecnologico (che diventa il film-concerto teorizzato da Laurent Jullier) ed estetico (il pastiche postmoderno teorizzato da Frederick Jameson).

E allora via a ogni fantasia naif: le location esotiche e i tesori da ritrovare, le mitologie antiche e le tappe da superare, le bellissime donne-avventuriere e i nazisti come nemici per antonomasia. Il viaggio dell’eroe campbelliano al massimo della sua perfezione narratologica: l’epica che muove la raffinatissima penna di Lawrence Kasdan; il culto per i riti popolari e il genio produttivo di George Lucas; la musica barocca e istantaneamente familiare di John Williams; il carisma da classic star di Harrison Ford e soprattutto l’incredibile "trasparenza" registica di Steven Spielberg, confezionano un dispositivo spettacolare di rara efficacia. Dispositivo che (ri)esalta ogni potenza del cinema hollywoodiano d’avventura salvaguardando la contingente passione prima e cristallina che pulsa dietro ogni immagine: questa è la vera Arca, questo è il vero Graal, questa è l’eredità morale lasciata dal cinema del decennio precedente. L’archeologo/avventuriero, “Dottor Jones”, dice all’amico Marcus Brody: «L’Arca dell’alleanza è tutto quello che ci ha spinto all’archeologia», che è come dire, quello ci ha spinto alla regia. E allora l’Arca, il Graal, il Tempio Maledetto o il Teschio di cristallo sono gli ultimate MacGuffin che «servono solo a fare il cinema», direbbe Bob De Niro ne Gli ultimi fuochi. Perché tra il reperto da dissotterrare (il cinema popolare) e il boogeyman da contrastare (i nazisti o i comunisti, le più potenti paranoie americane trasformate in “spettacolo”) I predatori dell’arca perduta diventa una continua vertigine metacinematografica che non tradisce mai la sua causa di primo livello: intrattenere lo spettatore contemporaneo come pochi film hanno saputo fare nella Storia. Pura immagine-azione.

1984, il sequel era già previsto. Indiana Jones e il tempio maledetto si apre con un’irresistibile sarabanda postmoderna tra il musical e il gangster movie, dove la memoria di Bugsy Berkeley incontra quella di James Cagney e dove una novella pupa del boss canta e balla in un club di Shanghai chiamato niente meno “Obi Wan”! E forse siamo veramente in uno di quei saloon stellari di Lucas – non a caso immaginato dagli stessi sceneggiatori di American Graffiti Huyck e Katz – dove si riconosce solo l’universo alternativo del cinema. Nell’inconfondibile geografia lucasiana delle trilogie il secondo episodio deve essere il più cupo, dominato da un lato oscuro della forza che minaccia l’identità del protagonista: Indiana Jones (o Luke Skywalker?) si trova costretto a lottare per ristabilire l’equilibrio perduto nella galassia lontana di un’India immaginaria, con i seguaci di Dei malvagi che minacciano una pacifica popolazione. Il film configura una straniante collisione tra l’ironia insistita della sceneggiatura (si sprecano i riferimenti alla screwball comedy anni ‘30) e la perturbante cupezza dalle inquadrature (la fotografia di Douglas Slocombe raggiunge nel Tempio Maledetto l’apice espressivo dell’intera saga). Insomma il capitolo universalmente riconosciuto come “il minore” emana comunque un inspiegabile fascino ancora oggi.

1989, terzo step. In Indiana Jones e l’ultima crociata, di nuovo, l’incipit è pura storia-del-cinema.

Siamo nel vecchio West, nello Utah, il tempio dei paesaggi fordiani dove un giovane Indy (River Phoenix) è alla ricerca della croce d’oro di Coronado. Tesoro archeologico al quale si sovrappone istantaneamente la più preziosa reliquia del nostro immaginario: un treno (eterna metafora-cinema dai Lumiere in giù) che trasporta attrazioni da circo e salva il nostro eroe dai nemici di turno. Tutti i tormentoni della saga (la frusta, la cicatrice sul mento, la fobia per i serpenti, il cappello Fedora Stetson) troveranno origine proprio su quel treno. Con l’interesse per le religioni e le mitologie antiche di chiara matrice lucasiana che si sposa nuovamente a una messa in scena spielberghiana di rara economia visiva: ogni esaltazione spettacolare è ben bilanciata da una crescita emotiva del personaggio e dei suoi rapporti interpersonali. Se il Graal è in fin dei conti «la ricerca del sacro in ognuno di noi», allora Lucas e Spielberg operano qui il capovolgimento capolavoro dell’intera saga: persino Indiana Jones diventa un figlio!

Il cinema dei movie brats, il cinema dei figli poggiato sulle spalle dei giganti, si fonde alla parabola di Indy nella costante ricerca di un tesoro nascosto. Ossia il rapporto con il Padre: John Ford per Steven Spielberg e James Bond/Sean Connery per Indiana Jones. Ecco arrivato allora il momento giusto per sciogliere l’ultimo tormentone della saga: il nome, l’identità del protagonista, legata al vecchio cane della famiglia Jones che (proprio come il vero cane di George Lucas) si chiama appunto Indiana. Sono ancora i ricordi più intimi, nascosti nei tesori dell’infanzia, a muovere l’ufficialità ultramilionaria del treno-delle-attrazioni: il terzo episodio (proprio come il primo) diventa una miniera inesauribile di trovate di sceneggiatura e invenzioni visive, fondendo i Miti dell’epica classica ai Miti del cinema-classico in un dispositivo narrativo pressoché perfetto nell’utilizzo degli archetipi.

Esempio: l’uno-due Berlino-Alessandretta è un colpo da fuoriclasse. Incontrare faccia a faccia Adolf Hitler – il villan più villan della Storia (del cinema) nella Berlino del 1938 – e poi staccare su un paesaggio desertico – che richiama evidentemente il western classico e lo Utah di inizio film – è l’ennesima e coerentissima presa di posizione immaginaria sul mondo e sulla storia. Il cow-boy Indiana Jones, a cavallo, sconfigge da solo un carro armato nazista e si ritrova alle origini della storia superando ogni “prova” e accedendo all’ultimo segreto possibile. Le radici bibliche della civiltà occidentale si fondono al mito della Frontiera trovando un’impossibile coerenza narrativa solo nell’epica del Grande Schermo: il campo lungo finale, con i cavalli all’orizzonte, segna il definitivo richiamo al cinema americano per eccellenza ed è la perfetta conclusione della saga… anzi no.

b>Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Diciannove anni dopo il produttore e ideatore George Lucas riesce a convincere di nuovo il regista Steven Spielberg a tornare in sella per una rimpatriata. Indy sente tutto il peso degli anni, non li nasconde e vince l’ennesima scommessa col tempo sopravvivendo in un cinema ormai innervato da una nuova tecnica (il digitale) e messo pesantemente in dubbio nella propria identità (si deve trasmigrare definitivamente nel pianeta Pandora? Anche Harrison Ford deve avere il suo Avatar super-potenziato?).

Indiana Jones, allora, ri-entra in campo strategicamente come un’ombra proiettata su uno schermo/macchina, balenando come icona inconfondibile del Novecento. E lo ritroviamo guarda caso alle porte di quell’Area 51 che (s)chiude da sempre ogni segreto americano partorito dalla narrativa popolare: in un’inquadratura si intravede persino l’Arca dell’Alleanza, “archiviata” nel primo film. Con sublime coerenza immaginaria, allora, si passa dagli anni ‘30 dei serial Republic agli anni ‘50 della paura rossa e del maccartismo, con la fantascienza di serie B diventata l’ultimo bastione possibile del “cinema classico”. Ed eccoli gli ultracorpi siegeliani che s’intravedono in filigrana nell’ennesimo, strepitoso, detour della saga: Indiana Jones non è più l’icona di un cinema dei figli ma si scopre improvvisamente anch’esso un padre. Indy è il padre di molto cinema contemporaneo (prodotto dallo stesso Spielberg): da Michael Bay a J.J Abrams, da Brad Bird a John Favreau. E gli stessi alieni dal teschio di cristallo si scoprono archeologi (che collezionano reliquie dell’umanità) riunendo la memoria di Star Wars a quella di Incontri ravvicinati del terzo tipo (gli anni ‘70) e facendo sopravvivere il corpo iconico di Indiana Jones (gli anni ‘80) in un’esplosione nucleare (metafora della smaterializzazione digitale?) che prelude alla nuova avventura. Un’impressionante consapevolezza teorica che si fa abissale rilancio nostalgico verso quello stesso cinema-della-nostalgia istituito da Spielberg e Lucas trent’anni prima: il quarto episodio della saga, pertanto, appare sempre più come un film lucidissimo e sin troppo sottovalutato.

Nessun dubbio: Indiana Jones vince sempre perché nasce dall’immaginario di un bambino. Indiana Jones sopravvive ancora perché ha lo sguardo del primo spettatore seduto al Cafè Lumiere attratto da un treno che non accenna a fermarsi. Indiana Jones crede testardamente nei misteri dell’immagine e non vuole mai “sapere” altro: tutti i nemici della prima trilogia, come l’ultima villan sovietica interpretata da Cate Blanchett, vogliono invece sciogliere quel mistero. Oltrepassare lo schermo e scoprire il Sacro Graal del cinema, possederlo, sfruttarlo, sino a essere puntualmente smaterializzati e cancellati per questa presunzione. Indy si ferma sempre un attimo prima e non arriva mai a possedere i preziosi tesori che ricerca, riaffermando così la sua intima umanità: chiude gli occhi all’apertura dell’Arca e salva la sua Marion; lascia andare il sacro calice nelle viscere della Storia e riabbraccia suo padre James Bond; rinuncia al Teschio di Cristallo per amore di un figlio (Shia Labeouf) che è protagonista nei nuovi Transformers.

Indiana Jones, ieri, è stato il necessario controcampo a ogni trauma del Novecento: da Munich ad Amistad, da L’impero del sole a Schindler’s List, da Salvate il soldato Ryan a Minority Report. Indiana Jones, ancora oggi, è un istintivo War Horse che attraversa ogni trincea dell’immaginario riportando puntualmente lo spettatore alla dimensione fanciulla di quel Gigante Gentile di nome Steven Spielberg. Ecco perché Indiana Jones non morirà mai.

The End (o forse no?).

Autore: Pietro Masciullo
Pubblicato il 01/02/2016

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