Dossier Steven Spielberg / 20 - La guerra dei mondi

La sintesi fra il grande narratore americano, che elabora i traumi del nuovo millennio, e il grande cantore del fantastico, che rende l'invasione globale una faccenda personale

Lo sguardo estatico che caratterizza da sempre i protagonisti di Steven Spielberg e che sintetizza il sense of wonder alla base di tanto cinema del regista americano, nel 2005 si offusca: non è un passaggio che nasce dal nulla, beninteso. All’inizio dei Duemila, infatti, l’autore si interroga sulla perdita d’innocenza, sul brusco risveglio di un millennio nato sotto l’ombra dell’immane catastrofe alle Twin Tower e che deve perciò essere elaborato. Se alcune pellicole si premurano di farlo in maniera esplicita (si pensi alla simbolica e potentissima inquadratura finale di Munich), altre donano linfa allo Spielberg che pensa in una prospettiva più storica (Prova a prendermi). La terza e forse più interessante via è quella che tenta però una sintesi fra il grande narratore americano e il cantore del fantastico, e qui La guerra dei mondi arriva a ricoprire un ruolo determinante.

Il film è infatti pensato come operazione stratificata, che trova nel romanzo originale di H.G. Wells l’intelaiatura di base necessaria, su cui viene costruita una storia originale, con personaggi nuovi: un padre incapace di far fronte al suo ruolo e dei figli che non lo ascoltano, costretti a unirsi dall’improvviso manifestarsi dell’invasione ("Sono i terroristi?" chiede la piccola Rachel: è l’unica concessione esplicita al segno dei tempi).

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Né può essere mancata l’originale trasposizione del 1953 di Byron Haskin e George Pal, autentica matrice di come si possa ripensare il sense of wonder in una prospettiva oscura: sebbene le citazioni di quel capolavoro siano effettivamente poche - principalmente il cameo dei protagonisti Gene Barry e Ann Robinson - Spielberg ne attualizza la chiave di lettura, e lo fa in un’ottica assolutamente personale, quando reinventa e sconvolge alcune immagini simboliche del suo cinema. Si pensi alla luce che filtra tra le aperture della casa (una sostanziale riscrittura di una scena quasi analoga di Incontri ravvicinati del terzo tipo), o ancora alla mano scheletrica dell’alieno che rievoca E.T. ma in una prospettiva che non è più d’incontro, ma di morte. Il Male è perciò tanto minaccia assoluta, quando una faccenda personale, che arriva a investire direttamente il proprio vissuto e il proprio immaginario.

E’ per questo motivo che Spielberg alterna un punto di vista che è esterno e allo stesso tempo interno alle vicende narrate: da un lato c’è uno sguardo che riduce letteralmente la realtà a particelle, che mostra le nostre città come enormi parti di un immenso corpo dove il tutto è insieme di tante minuscole cellule (i titoli di testa e coda sono espliciti nei parallelismi in tal senso); ma poi tutto ricade su una vicenda personale, sul corpo di persone di carne che misurano il loro spazio sulla forza dei rispettivi affetti, riscritti e costretti a subire le necessarie e dolorose evoluzioni del caso, fra padri assenti che si scoprono legatissimi ai figli, e ragazzi che non ascoltano il genitore perché si sentono parte di un qualcosa di più grande, vogliono unirsi all’esercito e vendicare l’assalto (ancora un altro rimando alla situazione post 11 Settembre).

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Ciò che però ci preme è la dinamica visiva che Spielberg mette in atto per raccontare questa doppia prospettiva dentro e fuori gli eventi narrati: che è al contempo di negazione e di esaltazione della visione. Da un lato c’è l’invito perenne a non guardare, che Ray rivolge alla figlia Rachel per preservare il suo spielberghiano sguardo innocente e carico di sense of wonder. La battaglia per mantenere il senso dell’umanità passa proprio per la preservazione di un punto di vista che nell’orrore generale sia capace di mantenere ancora un’innocenza. Ogni volta che gli occhi vengono aperti, infatti, l’orrore è totale. D’altro canto, questo presuppone una potenza visiva che il film non solo scatena con il fragore degli effetti speciali, ma anche con una messinscena immersiva rispetto alle possibilità offerte dal nuovissimo cinema digitale, nel senso più lucasiano del termine – l’anno di uscita, non a caso, è il 2005, lo stesso del seminale Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith. Il risultato è un’incredibile esperienza sensoriale, fra le poche in grado di esprimere un senso dell’annichilimento totale nei viraggi estremi della fotografia, nella forza penetrante del sonoro emesso dai tripodi alieni e nel senso generale di disfatta (rispettoso del romanzo originale di Wells) – si pensi alla splendida sequenza della fuga in traghetto. Una sponda felice è inoltre garantita da un Tom Cruise già all’opera con il processo di decostruzione della sua fisicità iconica (poi destinata a proseguire con l’exploit di Tropic Thunder, con la performance musicale di Rock of Ages e con la natura fluttuante dei personaggi di Oblivion, Edge of Tomorrow e Jack Reacher).

Spielberg porta quindi alle massime conseguenze il timor panico per un senso della perdita d’innocenza che sembra non conoscere limiti: in tutto questo una nota di speranza è comunque possibile, sintetizzata dalla scheggia nella mano di Rachel, che non viene estratta perché il corpo la espellerà al momento opportuno. Come gli alieni che vengono “espulsi” dai batteri dell’atmosfera terrestre, insomma: il terrore per Spielberg non è congenito nella razza umana e alla fine sarà naturalmente rigettato, fino alla ricomposizione finale.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 27/01/2016

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