Dossier Pedro Costa / 3 - Juventude Em Marcha

L’eterno presente di un’immagine che disvela l’altro.

Non c’è nessun andare se non questo continuo ritornare, quest’anziana gioventù in marcia che è ferma eppure in cammino, inghiottita dal tempo e dallo spazio. Ancora più che nei precedenti Ossos e No quarto da Vanda, Juventude Em Marcha è l’opera-monstrum dell’esploratore ai margini, il progetto etnografico che antepone alla scienza della visione una sorprendente morale dello sguardo. Morale che combina la pura, cristallina ascesi bressoniana con un’inestricabile, perfino sgradevole traccia materica. I volti, gli spazi, le pareti, i mobili, perfino l’aria, tutto ha corpo, massa e volume…tutto si può toccare nel cinema di Pedro Costa, perché è qui, ora, in questo momento eternamente presente.

L’aspetto più commovente del suo gesto filmico è l’assoluta anti-programmaticità, la costruzione di un film sempre eventuale, sempre ipotetico, sempre in divenire. Filmare per lui significa entrare nelle case, scendere per strada, instaurare un rapporto affettivo con ciò che riprende. Il suo cinema è sempre di più un luogo di condivisione, un avamposto di piccoli sguardi dove ciò che conta sono gli attimi passati insieme, istanti dilatati, senza passato né futuro, diluiti in un eterno presente. Anche in Juventude Em Marcha riconosciamo il regime affettivo di un’espressione che sgorga sempre dalla vita, mai da referenti cinematografici, mai da dettami o teorie di messa in scena. L’unica morale è allora quella della scoperta dell’altro. L’altro è l’epifania improvvisa che si consuma davanti alla camera come una vera e propria rivelazione: ogni persona è un mistero assoluto cui voler bene.

Fonthainas, quartiere capoverdiano, terra dimenticata a nord-ovest di Lisbona, era il set-mondo dei due film precedenti di Costa. In Juventude Em Marcha quel set reale è stato ormai smantellato, costringendo gli abitanti a un inevitabile esodo. Gli eroi ultimi del cinema di Costa si sono spostati a Casal Boba. Ciò che colpisce immediatamente l’occhio è il chiarore accecante di mura e palazzi: la casa di Vanda, ad esempio, sembra inghiottire il tempo in uno sfacelo di luce bianca, in un nitore privo di memoria. Tutto il passato pare come cancellato, riverniciato, rimosso. Come i due titoli che l’hanno preceduto, Juventude Em Marcha richiede un’adesione assoluta perché ospita letteralmente lo spettatore all’interno delle stanze in cui è ambientato. La visione di Costa deve arrivare a quel punto estremo, pericolosissimo, in cui il reportage implode e si apre all’altro da sé, alla vera voce del territorio.

Juventude Em Marcha, del resto, nasce da oltre trecento ore di girato ridotte a centocinquanta minuti, una camera digitale che non vuole conquistare lo spazio, ma lascia che esso si faccia avanti, disvelandosi all’interno di un conturbante immobilismo. Il tempo si è fermato, gli ambienti parlano attraverso emissari che si moltiplicano come correnti: il territorio è lo spazio in cui siamo, la nostra stessa Storia. Ogni uomo è un’architettura che riconduce sempre a una geografia tutta interiore, mai detta, mai esibita, ma sempre implicita. Il cinema di Costa continua a essere un problema, perché sa che i luoghi non possono dire se non deformandosi, che gli occhi non possono vedere se non stancandosi. In questa spossatezza, in quest’andamento nebuloso, in questa fatica quasi beckettiana, si trova la verità di chi vive.

Ventura, operaio in pensione che era appena una comparsa nei film precedenti, è il corpo-veicolo che ci traghetta da un luogo all’altro. E’ un corpo fuori controllo, impossibile da collocare, perché non segue alcuna traiettoria se non quella del suo presente, infinito vagare. Attraverso la sua figura è proiettata un’odissea tutta interiore. La luce è quella della penombra dove si attende un’impossibile rivelazione: Ventura, del resto, è ciò che rimane del santo, la sua eccedenza, il suo retaggio come esistenza lasciata a sé. Esistenza sempre in attesa di una visione, di un dono che non sia solo il suo abban-dono. Egli, cuore del film, solitudine pensante lasciata dalla moglie dopo trent’anni di matrimonio, ricerca nuovi figli da poter amare e di cui potersi prendere cura.

Nel loro immobilismo i piani di Costa ci consentono di guardare dove gli occhi non arrivano, in queste visioni che esauriscono il tempo e lo spazio si scopre qualcos’altro (che è diverso e affine allo sguardo infinito di uno Tsai Ming-liang che deve stancare, consumare, superare il tempo pur di vedere un oltre, un di più). E’ lo spazio stesso a proiettarsi e ad accadere davanti all’occhio di chi guarda. E’ un film che si fa vedendolo, si costruisce facendolo: Juventude Em Marcha semplicemente succede, privo di filtri, trucchi o attori. Ventura, come gli altri protagonisti, sembra un reduce, il sopravvissuto di una catastrofe tossica. Fontainhas è dentro di lui, come un passato che non può più esistere, come un futuro che è incerto e precario: crollano le case, rimangono i lunghi frammenti di un presente che continua a oscillare. Ora non resta che questo continuo vagare.

Ma non si può dire Juventude Em Marcha: il cinema di Costa richiede, inquadratura dopo inquadratura, di essere abitato. Non un cinema di edificante ricostruzione, ma di estrema precarietà. E’ questo continuo slittamento, questo scivolare via lentamente verso i margini dell’immagine, questo possederla, questo vagare continuo in un andirivieni infinito di dentro e fuori. Nella penombra, nella stasi senza fine di un presente che risuona come una maledizione, gli occhi sono fari nella notte, bagliori grondanti di scintillante tristezza. Non si può esigere nulla da quegli occhi, se non di essere percepiti. Quello di Pedro Costa continua a essere un cinema fieramente ai margini, della società, dello schermo, del cinema stesso.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 01/04/2016

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