Dossier Denis Villeneuve / 7 - Enemy

Un’opera tenebrosa, girata in un estraniante chiaroscuro che riflette la natura dialettica di due spazi opposti, contrappuntistici.

Nel corso degli ultimi due secoli il mondo culturale ha percorso in lungo e in largo il terreno imperscrutabile e affascinante del doppio. Dalle riflessioni filosofiche a quelle psicanalitiche, questo tema ha impregnato le teorizzazioni di alcuni dei più importanti esponenti del pensiero moderno. Da Hegel a Marx, da Otto Rank a Freud. Ma è nel mezzo artistico che tale tematica ha trovato il suo campo di applicazione privilegiato, specie negli ambiti in cui la narrazione emerge in tutta la sua potenza ed efficacia significativa: il romanzo e il film. Gli spazi di circuitazione tra queste due forme artistiche sono ben definiti da tempo. Il loro interscambio, dalla nascita del cinema a oggi, ha mantenuto una costanza inscalfibile e non poche volte tale passaggio è avvenuto all’insegna di narrazioni incentrate sul doppelgänger. Basti pensare a Dr Jekyll and Mr Hyde di Mamoulian, all’hitchcockiano La donna che visse due volte o al più recente Fight Club, passando per l’incontro dei racconti di Poe con il cinema targato Hammer. Sotto lo stesso tipo di operazione rientra Enemy, sesto lungometraggio del regista canadese Denis Villeneuve, adattamento cinematografico del romanzo L’uomo duplicato di José Saramago.

Adam (Jake Gyllenhaal) è un professore di storia solitario, dalla vita privata conflittuale. Il rapporto con la compagna Mary (Mélanie Laurent) è ai ferri corti, e solo la madre (Isabella Rossellini) sembra avere a cuore la sua serenità, in un misto di affetto e controllo materno. Su consiglio di un collega, Adam noleggia un film in cui si accorge di una comparsa uguale in tutto e per tutto a lui. Rimasto fortemente impressionato da tanta somiglianza decide di mettersi sulle sue tracce fino a quando, dopo una breve ricerca, riesce a trovare i recapiti del suo omologo Anthony (interpetato dallo stesso Gyllenhaal) ed entrarci in contatto. Un incontro che scatenerà una serie di reazioni a catena, che comprometteranno l’esistenza di Adam e, non di meno, la croyance dello spettatore. Ci troviamo di fronte a un’opera tenebrosa, girata in un estraniante chiaroscuro che riflette la natura dialettica di due spazi opposti, contrappuntistici. Due spazi dai segni differenti che si risolvono, o meglio, che costituiscono la figura sintetica dell’individuo a metà strada tra l’impeto del mondo delle pulsioni e il rigore sovrastrutturale del Super-Io. Ed è proprio nell’incontro con l’altra faccia di se stessi che emerge e diventa tangibile la natura duale dell’individuo. Dell’Io come territorio di contaminazione tra due forze in conflitto. Ma è anche attraverso questo incontro che Adam cominicia a delinearsi come protagonista di un percorso riflessivo sulla propria esistenza, che si configura principalmente come esorcizzazione della propria morte.

Il passaggio delineato, in primis da Rank poi da Freud, in riferimento alla figura unheimlich del sosia, ovvero dalla sua natura primaria di “assicurazione contro la scomparsa dell’Io” (o “energica smentita del potere della morte”) alla deriva in “perturbante precursore di morte”, sembra trovare in Enemy piena realizzazione. La scoperta di Anthony pone inizialmente il “co-attante a ripetere” Adam di fronte alla sua esistenza come potenzialmente ripetibile, e dunque “immortale”, per poi defluire nel sentimento spettrale di una presenza mortifera impellente, nemica. E tale metaforfosi, o dissolvenza, raggiunge lo spettatore interrogandolo, costringendolo a restare sul pezzo, lì, di fronte ai livelli psichici che entrano in contatto provocando un progressivo cambio di marcia, una virata diegetica in cui Adam è Anthony, e Anthony è Adam, spiazzando in primis gli stessi personaggi. Es e Super-Io si articolano non nel corpo di Adam o in quello di Anthony, ma in quello di Jake Gyllenhaal, l’Io risiede nell’attore, è il personaggio principale e il foglio su cui Villeneuve ha scritto il suo testo. Il corpo dell’interprete è la Storia; i due personaggi rispondono al principio hegeliano – citato da Adam nel corso di una lezione – per cui “tutti i grandi avvenimenti mondiali accadono due volte”, implementato dalla riflessione di Marx il quale diceva “che la prima volta era una tragedia, la seconda una farsa”. Il regista si serve, in parte anche pleonasticamente, di tali citazioni per implementare il discorso centrale dell’opera: l’uomo e la storia come risultanti di forze plurime, disomogenee, che segnano il percorso di un’umanità incastrata nelle pastoie della coazione a ripetere. E per fare questo Villeneuve mette in scena un’opera che sembra disancorata da tempo e spazio, fluttuante, poggiata nella zona interstiziale in cui avviene il continuo scambio tra l’esplosione dell’emergere dell’inconscio (individuale e collettivo) e gli altri livelli.

Lo spazio di Toronto è uno spazio de-metropolizzato, uno spazio vacuo, irreale, o meglio, uno spazio mentale. E così come la città canadese, tutto il film risponde a tale impostazione. Tutto è spazio mentale ed è ciò che emerge fortemente dalla visione di Enemy, la sua croce e la sua delizia. Un film fortemente psicologico. Anche troppo.

Autore: Paolo Scire
Pubblicato il 24/08/2014

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