Dossier Bertrand Bonello / 4 - Saint Laurent

Il biopic su Saint Laurent è un nuovo autoritratto, appena celato, del cinema di Bonello, che come gli abiti dello stilista aspira ad essere pura forma eidetica.

L’arte non mi interessa più. È diventata così terribilmente noiosa.

Forse oggi, diventare famosi è l’arte più grande di tutte.

E noi in questo siamo fantastici, perché entrambi amiamo la fama

È una sequenza meravigliosa e cruciale quella della lettera di Warhol a un Yves Saint Laurent appena legittimato dai suoi rivoluzionari tuxedo e dall’abito-Mondrian non solo come talentuoso couturier ma come artista tout court. Ma qual è, Per Warhol e Bonello, la vera arte di Saint Laurent? Quella, a cui loro stessi anelano, di scomparire negli oggetti, farsi puro brand: “Vorrei che facessi dei vestiti con delle zuppe a buon mercato. E io vorrei fare dei quadri nel modo in cui tu fai vestiti. Nel modo in cui si guarda la tv”, continua la missiva. Ed è proprio questa evanescenza, questo effimero sublime, ciò che sembra avvincere Bonello e legare l’icona YSL alle sue stesse immagini, a un tempo “suadenti e respingenti” – come scrive Leonardo Gregorio a proposito di Tiresia – e sempre, immancabilmente sfuggenti.

È un cinema, il suo, profondamente misterioso, fatto di suggestioni visive che perdono subito forza quando si prova a imprimerle sulla pagina scritta, come un albatros baudelairiano. Eccetto forse per il dato più politico, che emerge con urgenza dalla sua rabdomantica filmografia: dalla maison close alla Maison Saint Laurent continua, infatti, il viaggio di Bertrand Bonello dentro universi chiusi, che donano una dimensione fisica all’eterno conflitto del singolo con la società, all’ennesimo personaggio che, dopo le pornographe Jacques Laurent o il regista Bertrand di De la guerre, offre con la propria alterità di sguardo (o corpo, se pensiamo alla diversità androgina di Clotilde rispetto alle sue giunoniche compagne, simili alle Grandi bagnanti di Renoir...) una strenua, individuale resistenza a tutto ciò che è collettivo.

Il regista, il pornografo, la prostituta, lo stilista si librano, nel cinema di Bonello, al di sopra delle masse, della società, della stessa Storia, qui racchiusa nello split screen delle collezioni a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, dove le guerre, le lotte di piazza, la bruttezza e la volgarità dello scontro vengono sublimate in abiti sinuosi, nei quali l’artista inscrive gli eventi distillandone l’essenza e tramutandola in pura forma. Alla stregua di quanto lo stesso Bonello tenta di fare col proprio cinema, sempre inebriante, pieno, denso di colori e umori, eppure dall’inconfondibile anelito alla nettezza, all’astrazione, probabilmente davvero compiuta soltanto nell’esperimento di Ingrid Caven, musique et voix, epifania sinestetica di luci e suoni, costruita attorno al corpo della Diva.

“Netto, preciso, come un gesto”, sussurra Yves mentre recide le maniche gonfie di un abito, riducendolo a un tubino-scheletro, seguendo un ideale estetico tutto in sottrazione. Ed è proprio in tal senso che l’operazione di Saint Laurent si mostra rivelatrice dello sguardo di Bonello, a oggi il cineasta francese più teorico, assieme a Desplechin e Assayas, e di certo il più prossimo alle decostruzioni di una certa “mitologia dell’immagine” caratteristiche della filmografia di Todd Haynes, non a caso citato in maniera piuttosto scoperta, tramite l’espediente dell’inchiesta giornalistica sulla presunta morte della star, à la Velvet goldmine/Citizen Kane.

Perché, se i paletti imposti dal biopic dotano l’opera di una maggiore struttura rispetto alle opere precedenti, è negli interstizi della narrazione portante che Bonello si prende i suoi spazi, concedendosi rêverie che muovono sempre in direzione della creazione, in quella sfera eidetica di pure forme che è la mente dell’autore, e dunque la propria, se – come dice Jean Cocteau – “si finisce sempre per fare un autoritratto”. Allora, la già citata sequenza della lettera warholiana si dimostra squisitamente teorica e politica, con l’immagine finale che dissolve l’artista tra i propri modelli, realizzandone al tempo stesso il desiderio di Warhol-Bonello, di tramutare l’arte in merce e il terrore più profondo: diventare un oggetto da museo, come l’Yves anziano incarnato da Helmut Berger, circondato da quadri e suppellettili opprimenti, doppio perfetto, commosso dalla propria perduta giovinezza.

Autore: Fabiana Proietti
Pubblicato il 22/06/2016

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