Dogman

di Matteo Garrone

Dogman - recensione film Matteo Garrone

Dogman è un film fuori dello spazio e del tempo, una fiaba nera in cui la cronaca resta solo una vaga premessa, la miccia di un’ispirazione che trasla la violenza, la strada, l’amore oltre il dato reale. A partire dallo spazio, da quella Magliana di fine anni ’80 che Matteo Garrone ritrova e reinventa tra i ruderi dell’ennesimo incubo urbanistico, lo scheletro cementizio di un villaggio western vaiolato dalla ruggine e intriso di pozze d’acqua. C’è un sorprendente uso dello spazio in Dogman, ondate di cemento e rovi di ferro circondano e isolano personaggi assediati da un paesaggio devastato. Non si è mai vista una Magliana così (e del resto Magliana non è, essendo il set campano), un’isola a sé stante e terra metafisica, lontana, raccontata in un tempo presente privo di tecnologia e in cui le insegne anni ’80 dei pochi negozi portano all’intrecciarsi di suggestioni cronologiche diverse. Raramente nel nostro cinema si trova un’attenzione così peculiare ed espressiva nei confronti del paesaggio, un orizzonte che Garrone decide di riportare con un’immagine più pulita rispetto al passato, a volte al confine con la maniera. Il solo affaccio in questo deserto dei Tartari è il mare, forse quello stesso mare dove, ricordando Caligari, vengono i pensieri. Ed è proprio qui che si avventura Marcello (uno straordinario Marcello Fonte, giustamente premiato) per sbarazzarsi del corpo di Simone, salvo poi tornare indietro tra i suoi fantasmi per cercare di offrire come tributo quel corpo di Golia assassinato, ultimo tentativo per tornare a far parte di quest’Eden rovesciato.

Probabilmente Dogman non sarebbe stato tale senza l’esperienza de Il racconto dei racconti, senza quell’escursione nell’oltre favolistico e sognato che pur sembrandoci ancora tra i film meno riusciti di Garrone svela oggi tutta la sua importanza nel percorso del regista romano. Sarebbe un errore infatti porre quest’ultimo film di Garrone in stretta continuità con i precedenti L’imbalsamatore e Primo amore; se la tentazione è lecita – collocare questa distorta e sotterranea attrazione tra Marcello e Simone in linea con i due titoli citati, come se assieme andassero a completare una personale trilogia sulle forme malsane dell’amore – nei fatti Dogman è un film che segue da vicino Reality e Il racconto dei racconti, recuperando l’innocenza fanciullesca del primo e la sospensione fiabesca del secondo. Le suggestioni si incontrano in Marcello, sorta di Pinocchio che subisce la violenza ma la ammira, finendo forse per amare il suo carnefice. Ma siamo lontani, si diceva, dai titoli più morbosi di Garrone, analisi cliniche degli anfratti torbidi degli affetti umani. Grazie ad una riscrittura totale dell’evento criminale Garrone scambia lo scavo psicologico con la pietà umana, simpatetica, lo sguardo è costantemente accanto a quello di Marcello, reso come un bambino alla scoperta del mondo, portatore di un’innocenza condannata a inquinarsi.

Un approccio simile richiede una scrittura che sia anch’essa sospesa, lontana dai lati più morbosi dei suoi personaggi, ma è in questo che forse Dogman paga l’evidenza delle sue intenzioni, con un’unidirezionalità che dall’uscita di prigione di Marcello in poi lascia poco spazio ad uno sguardo ulteriore, ad ogni suggestione. Da quel punto narrativo in poi il destino dei personaggi appare segnato, orchestrato. Un respiro più libero il film lo recupera nella scena finale, il sacrificio del gigante sull’altare della solitudine e dell’accettazione sociale. «Guardate cos’ho fatto!» urlerà Marcello agli spettri della sua mente, il vanto di un bambino che ha imparato fiero ad usare la violenza per farsi amare, rispettare, riconoscere.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 21/05/2018

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