Dead Slow Ahead

Un viaggio a bordo di un cargo mercantile diventa nel documentario di Mauro Herce una rappresentazione apocalittica del capitalismo industriale e dei fantasmi che lo abitano.

Più che una nave carica di grano e diretta per chissà quale porto europeo, il cargo di Dead Slow Ahead (presente al Festival di Torino e vincitore a Locarno del Premio speciale della giuria Ciné+ Cineasti del presente) potrebbe tranquillamente essere l’imbarcazione narrata da Bram Stoker nelle pagine centrali del suo Dracula, quella nave nel cui ventre viaggia tra le merci commerciali anche la cassa del vampiro, vaso di Pandora pronto a contagiare l’Inghilterra.

Solo che nel documentario di Mauro Herce (che si imbarca sulla nave Fair Lady per filmare un viaggio lungo 3 mesi) non ci sono creature soprannaturali nascoste sottocoperta, a rappresentare la mostruosità e a dormire come una fiera in attesa, che di notte si libera per nutrirsi dei cuori e delle menti dei marinai che la trasportano, è il capitalismo stesso, sistema disumanizzante e alienante che si presenta con piena evidenza nel film attraverso tutti i macchinari e gli ingranaggi e i motori che compongono la vita meccanica della nave.

Nel gergo marittimo “dead slow ahead” è un comando usato per indicare la necessità di raggiungere la velocità minima possibile senza arrivare a fermarsi. Il risultato è una stasi apparente, un movimento quasi impercettibile ma perenne, a lungo andare decisivo. Sospinti da questo ritmo ipnotico, quasi falso nella sua lentezza e nell’assenza totale di punti di riferimento nel pieno dell’oceano, i marinai che vivono nella Fair Lady sembrano gli ultimi sopravvissuti di una condizione terminale che li ha lasciati isolati da tutto e tutti; persi nell’orizzontalità totale della vastità oceanica, scorrono lungo un flusso che nel montaggio di Herce diventa rizoma privo di direzionalità e di un legame forte con la terra, evocata soltanto da silhouette di lontani porti industriali e voci distorte in arrivo via satellite.

Dead Slow Ahead è allora un documentario che veste i panni della fantascienza, che trasfigura lo spazio iperrealista e post-umano del cargo in una dimensione futura nella quale la nave sembra davvero un vascello fantasma popolato da spettri, scissi da ogni realtà umana. In questa rappresentazione allucinata, che lavora sulla ripetitività di spazi e situazioni, sulla stasi, sull’artificialità meccanica dell’ambiente della nave, Herce costruisce un ritratto a tratti davvero potente del capitalismo industriale, di cui riesce a restituire la coazione a ripetere e il suo schiacciamento nei confronti dell’uomo attraverso due formidabili metafore visive. Da una parte giace nella sua gigantesca vacuità il vano di carico, svuotato di tutto il grano che conteneva a causa di un allagamento improvviso; è il ventre della bestia, all’interno del quale gli uomini appaiono come sciocche miniature schiacciate dal vuoto di pareti di acciaio. Dall’altra invece c’è il cuore dell’intero apparato, un nodo di ingranaggi che rende possibile la vita meccanica e il lento movimento della nave; è questa a conti fatti la cassa da morto del vampiro, sepolta in un pozzo di oscurità e trasformata da Herce nel simbolo di un sistema che si nutre delle persone trasformandole in fantasmi.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 24/11/2015

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