Codice 999

Hillcoat firma un noir metropolitano ricco di dettagli preziosi e grandi scene d'azione, tuttavia manca il polso necessario a tenere sotto controllo la progressione corale della narrazione.

Nel cinema di genere di John Hillcoat c’è spesso qualcosa di irrisolto, un conto che non torna, l’assenza di quell’alchimia che dovrebbe elevare la somma delle parti a qualcosa di più. Al pari di Lawless, Codice 999 nasce da un’attenzione filologica alle dinamiche del genere di riferimento (lì il gangster rurale, qui il noir metropolitano), tuttavia mestiere e fedeltà alla tradizione non bastano a farne un film riuscito fino in fondo.

Sul solco di David Ayer e Antoine Fuqua, Codice 999 è il ritratto criminale di una Los Angeles popolata da poliziotti corrotti e mafiosi russi, gang messicane e bande di ex militari, professionisti dell’azione violenta che riciclano le proprie capacità in rapine su commissione. Nulla di nuovo ma tutto come deve essere, fedele alla scuola noir di Ellroy e al magistero crime di Mann, modello imprescindibile (e irraggiungibile) di questo tipo di cinema.

Hillcoat, che è un regista notevole quando si parla dell’attenzione al dettaglio e della costruzione di singole scene, ha studiato i maestri e si vede, soprattutto dal modo in cui riesce a restituire la dimensione criminale di Los Angeles, realtà fatta di sobborghi e tatuaggi e slang in cui la strada vive secondo regole a sé stanti, collage di immagini restituite da uno sguardo stilizzato e assieme iperrealista. Impeccabili anche le sequenze d’azione come la prima rapina, orchestrazione che da manuale noir diventa il palco privilegiato per l’ostentazione di un professionismo brutale ma mai sadico, piuttosto freddo, chirurgico. In questo contesto efficace ma a conti fatti anonimo, canonico, Hillcoat si ritaglia uno spazio personale per tornare a parlare di clan e di famiglia, di gruppi di persone unite da legami amicali e di sangue. Tuttavia se il rapporto tra il padre e il figlio di The Road è tutto ciò che ancora ha senso in un mondo devastato e sconfitto, per i protagonisti di Codice 999 ogni legame è in sé una debolezza, un punto vitale tramite il quale essere ricattati, feriti, controllati. Cane mangia cane.

Dalla rappresentazione stilizzata della violenza alla gestione del ritmo, c’è tanto nel film di Hillcoat che soddisfi l’occhio e il cuore dell’appassionato di genere, specie considerata l’attuale penuria di produzioni in questo frangente. Tuttavia, si diceva in apertura, qualcosa viene a mancare, e come in passato Hillcoat si svela un regista più artefatto che sincero, troppo attento a replicare il modo in cui dovrebbe essere un noir piuttosto che a farne semplicemente uno. Il risultato è un cinema mimetico che non ha in sé gli strumenti per restituire la coralità rincorsa dalla narrazione, né per rimediare ai problemi di sceneggiatura che via via crescono nel corso del film. Troppi personaggi chiamati in causa, per la cui caratterizzazione ci si affida a tipologie standardizzate che andrebbero anche bene se si riuscisse però a costruire attorno ad esse un tessuto narrativo coeso e non evidentemente eterodiretto. Codice 999 grida invece la sua intenzione di essere esattamente quella cosa lì, quel certo tipo di noir in cui le cose vanno esattamente in quel modo, ma senza una sincerità di fondo, senza la capacità di unire tra loro quegli elementi così perfettamente imitati. Nel migliore dei casi ne escono sequenze e particolari da ricordare, nel peggiore scimmiottamenti talmente forzati e voluti da sfiorare la parodia grottesca, come nel terribile finale.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 09/04/2016

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