Christine

Antonio Campos si avvicina alla tragica storia di Christine Chubbuck per portare avanti la sua riflessione cinematografica sullo statuto delle immagini e della violenza.

La storia di Christine Chubbuck, giornalista di una piccola rete televisiva americana che nel 1974 ha commesso il primo suicidio in diretta TV, è un mistero tanto macabro quanto intrigante che ci interroga sulla natura del rapporto tra immagine, violenza e società. La violenza è parte della nostra dieta mediatica e raramente ci poniano domande circa la sua genesi o la presunta normalità della sua rappresentazione. Tornare alla figura di Christine, nel 2016, richiede di rompere questo automatismo e tornare alle origini della mediasfera contemporanea.

Due opere profondamente diverse hanno percorso questo viaggio nel corso del passato 2016, partite dal Sundance e approdate entrambe al Torino Film Festival: da una parte il pregevole mockumentary Kate plays Christine, che riflette sul rapporto tra recitazione, dolore e pulsione scopica dello spettatore, dall’altra la terza opera di Antonio Campos, Christine, che si concentra sugli ultimi mesi della vita della giornalista, una donna forte e volitiva ma profondamente fragile nel privato. Christine (intepretata splendidamente da Rebecca Hall) cerca di realizzare le proprie ambizioni in un mondo dominato dagli uomini, dai valori famigliari tradizionali e dalla dittatura dell’audience. Anche sul fronte privato ha grandi difficoltà relazionali: a quasi trent’anni è single, sola e, a causa di un problema di salute, rischia di non poter avere figli.

Christine sembra inizialmente adeguarsi alle convenzioni del dramma biografico tradizionale, per poi minarle dall’interno. La prima scelta forte di Campos è quella di ridurre la storia di Christine al microcosmo asfissiante degli ultimi mesi della sua vita. Un vero e proprio "racconto della fine": l’epilogo di una tragedia dove tutto è già stato definito e il treno è già in corsa verso l’abisso. Non tanto un’alba tragica, quanto un lungo tramonto che non pretende di illuminare completamente le ragioni del gesto tragico di Christine, per sua natura inconoscibile e indefinibile. Non ci sono flashback a completare il puzzle narrativo, né facili soluzioni dietro la scelta del suicidio: c’è solo il lento accumularsi delle delusioni e delle frustrazioni, l’inesorabile affastellarsi di dolori senza vie d’uscita. Le parvenze di normalità e di successo cedono una dopo l’altra, mettendo a nudo la vita di una donna che soffre di depressione ed è infine sedotta dall’idea della morte. In un contesto così tragico, l’autore sceglie di non appiattire la vita di Christine a un semplicistico teorema della sofferenza, lasciando spazio al banale e al quotidiano, a squarci di vitalità e persino a momenti di ironia e leggerezza: in questo difficile ruolo, Rebecca Hall è sempre convincente e riesce a trasformare un personaggio lontano a molti spettatori in una persona in carne ed ossa che raramente comunica le proprie emozioni. Le rare eccezioni ne acquistano in potenza drammatica e impatto.

La depressione e la distanza dalla "normalità" del prossimo rendono Christine osservatrice di un’epoca in cui le tendenze all’alienazione e alla pornografia dello spettacolo sono ormai irrevocabili. La bellezza della missione civica del giornalismo, in cui la protagonista crede fermamente, viene erosa dalla realtà di una piccola emittente a caccia di spettatori e da un mondo che di ideale ha perso tutto – siamo nell’epoca di Nixon e dei postumi del Vietnam, l’America sta cambiando radicalmente e Christine è sospesa tra tradizione e modernità, tra femminismo e ruolo tradizionale della donna. La vera tragedia che attraversa Christine è quella della consapevolezza, istintiva più che razionale, di essere una pedina posseduta dallo spirito del tempo, dalla propria psiche capricciosa, da un mondo che di lei non sa che farsene. Vittima inerme, Christine si chiude in un mondo protetto perfettamente e racchiuso nella propria camera da letto, piena di giocattoli e ricordi di infanzia. Infine, si ribella nell’unico modo che riesce a concepire: si fa autrice della propria morte e la mette in scena con cura. Recupera un’arma da fuoco, immagina la scena, redige la notizia del proprio tentato suicidio e dell’inutile corsa in ospedale. Infine si spara alla tempia, quasi sfidando il secolo dei media a rendere conto della sua scelta.

Christine ci viene spesso presentata attraverso lo schermo di un monitor o di un televisore, a sottolineare quanto siano anguste queste immagini, così limitate e così spietate nel nascondere l’essenziale nel fuori campo e nel silenzio. Le immagini povere del secolo dei media si rivelano come schermature, o nel migliore dei casi delle convenzioni protettive, come quella del teatro a cui Christine si affida quando racconta le sue storie ai bambini dell’ospedale dove fa volontariato: pupazzi a cui affida la propria voce, e che si porterà nella borsa nel suo ultimo giorno di vita. Il colpo di pistola ribalta per pochi istanti la platea e il palcoscenico; con lo sguardo freddo e la voce spezzata, Christine ci osserva e rivendica il suo ruolo di spettatrice della nostra apatia.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 04/01/2017

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