Chappaquiddick

Il racconto di una tragedia americana meno nota risplende in un dramma dal lucido realismo emotivo.

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Che fascino cinematografico ha la tragedia di Chappaquiddick? Qual è il peso storico, nell’economia di una riduzione semi-finzionale, di un incidente annotato a piè pagina sul libro della Storia? Su che direzione tematica impostare quel groviglio di notizie contraddittorie che nel 1969, prima di essere schiacciato da titoli di risonanza ben più catalizzante, si gonfiò fino a solleticare teorie complottiste? In poche parole, che corpo formale e contenutistico dare alla nebbia che circondò il senatore Ted Kennedy quando la sua auto sbandò su uno dei ponti di Chappaquiddick e finì in acqua, causando la morte di una collaboratrice del defunto fratello Robert F. Kennedy? Operazione difficile quella compiuta da John Curran (ancora alle calcagna di una storia vera dopo Tracks – Attraverso il deserto) e da un team di attori (tra cui Jason Clarke, Kate Mara, Ed Helms, e Bruce Dern) impegnato a infondere fisiognomica a miniature ritagliate tra lo scandalo, la diceria, il risaputo e la confessione; tanto difficile che è quasi sorprendente assistere alle risposte date da questa trasposizione.

Al netto di alcuni difetti, Chappaquiddick ha in primis il merito di trattare l’immagine come il veicolo per indagare il dato pubblico attraverso il privato: è una scelta politica, che cerca nel momento emotivo la chiave per trovare la quadra di personaggi indagati nei loro ambienti intimi. Quanto di storicizzato viene interpretato in una dimensione psicologica che toglie le barriere della fascinazione sempre emanata dalla famiglia Kennedy per dipingere uno stato di crisi senza appigli risolutivi. Ultimo dei quattro fratelli, dilaniato da un complesso di inferiorità e identitario, il senatore Ted Kennedy (noto poi con il nomignolo “Leone del Senato”) è un personaggio spogliato di ogni qualifica mitologica: non è né un eroe caduto né un faro della democrazia né una pecora nera tenuta nascosta nei punti ciechi delle cronache; Curran lo offre alla visione come un confuso uomo della strada, schiacciato dalle aspettative e piegato da comportamenti ora integerrimi ora superficiali e infantili. Sulla fragilità di un uomo apparentemente solido (e proprio per la fisicità Clarke è perfetto) si accavalla il fuoco incrociato dei personaggi satelliti che lo sgridano, lo proteggono, lo compatiscono, ed è nello spazio della sua costruzione psicologica che il film lavora al suo meglio, giocando per ellissi, simbolismi e primi piani rivelatori, scavando sulla superficie liquida degli eventi e cercando sul fondale del suo cranio qualche verità postuma.

Corpo e mente di Kennedy sono misurati con il righello prima e dopo la tragedia, in una simulazione comportamentale che lo mette alla prova e lo studia nella cattività della gabbia dello schermo. Poi l’indagine si dilata e, dalla descrizione di un individuo che ne rappresenta molti altri, raggiunge i contorni di una discussione che suggerisce la compromissione della bussola morale dei governanti, la crepa nel disegno elegiaco della famiglia Kennedy, la menzogna corrosiva nell’ideologia della moralità stoica. Nulla di troppo originale, ma gestito attraverso il focus deformante dei particolari caratteriali di personaggi non più cinematografici bensì normalizzati. Il film d’altra parte acquista peso nella gestione delle psicologie e invece si sfarina in una parte centrale di “operatività gestionale” lontana dai fantasmi della mente. Quasi che l’unico modo per raccontare anche solo un piccolo snodo della storia americana sia fare tabula rasa e inscenare un teatrino degli atteggiamenti, focus su una linguistica comportamentale che diventa riflesso rivelatore di movimenti più ampi (il bisogno di mentire a sé stessi per trovare una verità accettabile per l’opinione pubblica, il peso della famiglia nelle decisioni del singolo).

Chappaquiddick allora funziona nel livello narrativo in cui l’emotività è protagonista incomoda, risposta all’impossibilità di raccontare la storia vera se non attraverso le marginalità sentimentali. Fallimento quindi? In un certo senso, ma dichiarato fin dall’inizio con fermezza d’intenti e quindi sorta di arresa vittoriosa al guscio della storia, consapevolezza di poter raccontare solo per parafrasi e metafore illanguidite un evento americano che per molti è affondato nella legittimazione della dimenticanza. Il realismo emotivo in fondo è uno dei pochi modi per dare senso alla memoria dimenticata e il cinema non fatica a ricordarcelo.

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 13/07/2018

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