Borg McEnroe

Come in una dinamica di diritti e rovesci, il film di Janus Metz alterna passato e presente dei due tennisti attraverso una narrazione misurata e dai toni contenuti.

«(…) I live my life for the stars that shine. (…) Tonight I’m a rock ’n’ roll star. Tonight I’m a rock ’n’ roll star», canta, con un certo piacere, dal 1994 Liam Gallagher, co-fondatore degli Oasis, i cattivi ragazzi per eccellenza della musica inglese degli anni ’90.

Per restituire il fulgore della finale di Wimbledon del 5 Luglio 1980, il regista Janus Metz concentra la sua attenzione proprio sul concetto di rock star, un concentrato immortale di demoni interiori e volontà di apparire e di donarsi ai media, una celebrità “sporca” che detta la moda di un ben preciso tempo storico. Da un lato, c’è Björn Borg, l’iceborg svedese, fascia alla fluente chioma vichinga, sguardo da duro e collanina ad incorniciare il collo e a sfiorare il colletto aperto della polo; dall’altro, John McEnroe, il super brat americano del tennis, genietto ribelle e precoce, carattere irascibile, carnagione chiara e massa di capelli ricci.

Nella narrazione di Borg McEnroe questa sfida assume i tratti del più archetipico dualismo western: lo scontro si sviluppa tra il condottiero buono ed il sottoposto malvagio che mette in dubbio le sue capacità, tra il freddo controllato e l’insolente dallo straordinario talento in grado di infiammare il pubblico come pochi altri. Il film si sviluppa come una lenta e tesa progressione di due atti verso il climax finale del terzo atto che esplode la tensione accumulata nel corso dei minuti precedenti. Il nucleo fondante l’immaginario alla base del film è costituito dal match finale di Wimbledon. Tuttavia, come nel recente La battaglia dei sessi di Jonathan Dayton e Valerie Faris, anche qui il tennis è una sorta di escamotage per raccontare una ricerca ben più particolare: quella della propria identità. Janus Metz non ha dubbi sulla forma identitaria da applicare al suo Borg McEnroe, esercizio scolastico svolto alla perfezione, in grado di accarezzare la soglia dell’equilibrio per buona parte della sua durata e di provocare nel pubblico un crescendo di emozioni, fino allo scioglimento finale.

«Devil’s on my doorstep since the day I was born. It’s hard to find a sunset in the eye of a storm». La regia aderisce alle pause di ghiaccio di Borg, ne svela con rigidità il peso della fama, i rituali privati e i fantasmi alla base della sua mania del controllo. Rivela le paure nascoste sotto la superficie di un campo da gioco, quei demoni interiori che spingono ogni singolo titanico colpo alla pallina verso la metà campo avversaria. Ed intreccia sapientemente, emulando la dinamica di diritto e rovescio, passato e presente dei personaggi che racconta. McEnroe è soltanto apparentemente diverso da Borg. Il super brat nasconde le stesse paure del gigante svedese e trova nell’interpretazione di Shia LaBeouf, fatta di silenzi e di improvvisi scatti, un cortocircuito tra la carriera dell’attore americano, giovane di talento che ha visto più volte il suo percorso andare in frantumi a causa di comportamenti decisamente sopra le righe, e la messa in scena del suo personaggio.

In Borg McEnroe, il tennis rimane un elemento laterale e lascia spazio al rapporto (mancato) tra i tennisti. La geometria e l’atletismo del gesto sportivo sono applicati alla forma del film e alla delineazione dei caratteri dei due protagonisti, alle prese con il match contro l’avversario più temibile: un passato da scacciare. Lo scontro tra il Titano ed il piccolo umano si trasforma anche in un fatto di (hair-)style, di acconciature e di mode da tramandare attraverso gli anni grazie alla memoria fotografica. Come chiosa finale, al termine della tempesta, non rimane altro che un caloroso abbraccio tra due rock star, consapevoli (o forse no) di aver dato vita ad uno spettacolo (pubblico e privato) la cui intensità ha superato di slancio quella di una semplice partita di tennis.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 13/11/2017

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