Belle dormant - Bella addormentata

Con Arrieta la favola tradizionale diventa un sogno lungo un secolo, il bacio per risvegliarsi apre alla danze, alla vita: un ritorno al cinema indipendente.

«Dormire è distrarsi dal mondo»

J.L. Borges

Un sonno lungo un’epoca: è stata solo una distrazione, ci siamo persi il Novecento. Dopotutto si è trattato solo di un po’ di traffico aereo, di telecomunicazioni scatenate, di un paio di guerre, di cent’anni di cinema. Soprattutto in quest’ultimo, piccolo dettaglio, si legge il dispetto, il diletto poetico dell’Arrieta mutevole che cambia era alle fiabe come lui cambia nome e città, si ribattezza di film in film Ado, Adorfo, Vdolfo, rimaneggiando la gravità storica di un “Adolfo”, lascia la Madrid franchista per Parigi, tralascia la vena pittorica per inseguire Le Sangue d’un Poete, per amor di cinema e di Cocteau inventa il film indipendente o forse lo scopre, nel Tam Tam (1976) delle feste ininterrotte, nelle Flammes (1978) di un amore apparso in sogno; approda a un Merlin (1991) alter-ego magico, infine, riscrive settantacinquenne una favola europea tradizionale, La Bella Addormentata nel Bosco, traslandola negli anni 2000: Belle dormant.

Cos’è successo a una giovane principessa in un regno che si dice leggenda, ma che forse esiste davvero, in qualche intreccio boschivo centroeuropeo dimenticato dal mondo o forse dimentico del mondo? Si è addormentata – precisamente nel 1900, per un centinaio d’anni, saltando a pié pari il secolo in cui tutto è accaduto. E con lei l’intero Reame, il re nel bel mezzo di una frase in un incontro diplomatico, il cavallo nella stalla, le mosche alla finestra, si è fermata l’acqua delle fontane, il fumo dei camini, la vita è diventata tableau vivant, il cinema è tornato pittura. Ado Arietta l’ha ridisegnato con voluta naïveté, a partire dai titoli di testa scritti a pastello, con mano infantile, fino al flou che sfuma il digitale con morbidezza onirica, con tale dichiarata ingenuità da consentire ogni seducente abbandono.

Il Regno di Kentz dorme come la lunga gestazione di un bacio già scritto: se trovare rimandi politici nella libertà espressiva di Arrieta, autentica e singolare come poche, pur nel secolare sonno di una monarchia d’altri tempi, è già sovrainterpretare, non lo è cercare il cuore malizioso della fiaba, quello che struttura un erotismo simbolico che passa attraverso il sonno, che si fa beffe dei proclami, dei dettami genitoriali, che cade nell’incantesimo risolvendo la morte in catalessi e preludia al risveglio, che è sempre risveglio dei sensi, sensuale. E consensuale (?). Vi sarebbe da discutere su quanta partecipazione amorosa possa esprimere una principessa addormentata, di fatto nessuna, e a poco valgono polemiche recenti in materia quando l’allusione deflorativa, pur edulcorata in secoli di progressiva moralizzazione borghese, all’origine c’era, eccome. Ma la fiaba è fatta per adattarsi ai tempi, la sua forza è quella di trasformarsi, restando tuttavia integra nel suo nucleo fondante. Quant’è vero che un principe e una principessa si sognano e si desiderano a priori, perfino in due epoche distanti, perché il loro ruolo è quello di saldarsi nella complicità amorosa, perché amore (fisico, soprattutto) e morte restano i poli dominanti del racconto di formazione sotteso alla fiaba. Così, il gioco di Arrieta nasce dall’aderenza a una trama nota, quella di Perrault, fedeltà che consente l’estrema sintesi del racconto, quasi ripasso mentale di passaggi già noti, sui quali costruire, in forma di pittura digitale, una narrazione così lieve che si risolve in danza.

La musica è il capriccio del film, del suo principe viziato (Niels Schneider) e impeccabilmente ligio al suo ruolo fiabesco, batterista sopra le righe, ballerino ispirato. Una festa danzante è il luogo di incontro con la fata (Agathe Bonitzer) che a suo tempo salvò la principessa dalla condanna a morte di una strega livorosa e che ora è archeologa dell’UNESCO. Justine Pearce, già più volte costumista per Philippe Garrel, la veste con eleganza francese che attraversa le epoche e, insieme alla fotografia morbida e vaporosa, la rende magnetica, complice irraggiungibile che mette in atto un disegno.

Lo sguardo di Arrieta è musicale dai tempi della gioventù parigina, ha la levità dell’essere esattamente ciò che desidera, del non toccare mai troppo terra – non a caso l’angelo Amalric narra la trama fiabesca al principe Egon in elicottero. A fronte dell’onniscienza delle creature almeno simbolicamente alate, il sonno è leitmotiv umano, in più si addormentano anche al di fuori della fiaba, per noia o per borgesiana distrazione, un torpore generale avvolge il film intero, i suoi personaggi sono agiti, ma trovano la loro libertà espressiva nel desiderio estemporaneo, nell’improvvisazione (il principe non canta, non compone: improvvisa). Dopotutto, la minaccia mortale che grava sulla principessa risiede nel fuso di un arcolaio, rimando ben più antico della fiaba, che ci riporta al mito, le fate medievali ricalcano le parche che tessono il filo della vita, lo dipanano, lo tagliano, un’impronta fatalistica veglia su tutti i reami che dormono, su tutte le epoche che, come scrisse Jules Michelet, sognano le successive. Walter Benjamin lo citava insistendo sulla necessità del risveglio. Ma questo è solo cinema europeo indipendente un cinquantennio dopo la sua nascita, è solo un atto poetico, il suo risveglio è nel suo essere com’è, nella sua libertà espressiva. Per questo un principe del Duemila che approda in un regno fermo al principio del Novecento, scatta foto con lo smartphone. Quale padre autoritario crederebbe che esista davvero un reame addormentato nel cuore del bosco? È giusto portare qualche testimonianza. Ma, soprattutto, quale telefonino scattava fotografie nel 2000? E cosa importa, in fondo?

Tra fate dell’UNESCO, principi tecnologici, castelli diventati mete turistiche, conferenze soporifere, quanto è diventata prosaica la realtà nel covile amministrativo delle istituzioni? Pochissimo, in effetti, se una danza finale avvicina due epoche tuttavia contigue fino a farne sensualità che prende corpo dall’incertezza, sintonia musicale, accordi contemporanei in una stanza d’altri tempi: un principe di oggi e una principessa di ieri ballano fuori dal tempo, dunque concordi a tutte le epoche nel frangente lungo una vita che li vuole insieme perché così era scritto, così è stato filmato. Salvo rimaneggiamenti. Il cinema, a volte, non è immagine in movimento, ma in trasformazione. Così, due estranei di due epoche estranee per volere di un fato romantico, ovvero di una fata, si incontrarono e si misero a danzare. E vissero per sempre. O almeno per un po’.

Autore: Alessia Astorri
Pubblicato il 20/12/2017

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