Beles - La stagione dei fichi d’India / Brevi note sul cortometraggio e intervista

Il corto prodotto da ''Inuit'', in concorso alla prima edizione di MigrArti a Venezia, riporta al centro dell’attenzione il rapporto tra mezzi audiovisivi, narrazione e identità.

Beles - La stagione dei fichi d’india è uno dei progetti vincitori di MigrArti, bando indetto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per tentare di colmare il gap conoscitivo – spesso un vero e proprio abisso, più che una semplice distanza – che ci separa dai “nuovi italiani”, gli immigrati di seconda generazione, e favorire un reciproco ri-conoscimento.

Il lavoro, diretto da Massimo Ruggiero e realizzato da Inuit, associazione barese che da anni utilizza l’audiovisivo per permettere a chi vive situazioni di minoranza – sociale e culturale in primis – di sondare, in pieno affrancamento, la multiformità della propria identità, mostrandosi con sincerità al mondo, è stato tra i cortometraggi selezionati alla 73° Mostra Internazionale di Cinema di Venezia. In palio, il "Premio MigrArti", vinto poi da No Borders di Haider Rashid (con Elio Germano) e consegnato, non a caso, dal presidente della giuria Ferzan Ozpetek, regista turco naturalizzato italiano che sin dalla sua opera prima, Il bagno turco, ha da subito affrontato il tema del dialogo interculturale, delle identità mobili e fluttuanti, della ricerca, mai sopita, delle proprie origini.

Beles vuole parlare di questa mutevolezza nel percorso identitario di tre giovani eritrei che non hanno mai conosciuto i luoghi d’origine se non attraverso il racconto dei parenti. Già nella necessità di questa mediazione narrativa, nel dialogo tra genitori e figli, nel ricorso agli album fotografici e alle videocassette è rintracciabile il germe dell’impianto teorico-ideologico che sorregge il lavoro di Inuit, e che parte dalla consapevolezza che ciascuna identità è il frutto di una dialettica, di incontri con gli altri e con se stessi, di racconti ascoltati e rielaborati, di tasselli mobili, mai del tutto cementificati. Le storie di Dawt, Feiben e Maricos non si esauriscono nell’espressione delle proprie origini, ma sono irrimediabilmente arricchite dal loro essere veri e propri baresi: il loro accento, i luoghi della loro formazione, del loro svago e del loro lavoro, altro non sono se non topoi perfettamente riconoscibili dagli autoctoni. Come gran parte dei propri coetanei, cercano un posto nel mondo, un futuro. Sono “fichi d’india” (beles, appellativo con il quale vengono canzonati gli eritrei residenti in Italia, significa appunto questo), figli della diaspora, identità ibride che chiedono soltanto di essere riconosciute nell’universalità delle loro esigenze.

Attraverso una lunga intervista al regista, Massimo Ruggiero, all’antropologo visuale Simone Hardin e alla presidentessa dell’associazione, Letizia Indolfi, triade che ha co-fondato Inuit, abbiamo cercato di approfondire le tematiche del corto e di indagare il rapporto, attualissimo, tra cinema ed etnografia, tra immagine in movimento e identità in continuo divenire.

Beles - La stagione dei fichi d’india racconta la diaspora del popolo eritreo attraverso lo sguardo di tre ragazzi eritrei di seconda generazione, nati e cresciuti a Bari. Si potrebbe dire che le loro sono identità ibride, “diasporiche”, sospese tra il senso d’appartenenza ai luoghi di nascita e formazione e il forte desiderio di non perdere il legame con la patria dei genitori. Perché avete scelto proprio questa comunità per parlare dei nuovi italiani?

M.R.

Dawt, Feiben e Maricos li conosciamo da qualche anno: è capitato di frequentare gli stessi posti e, per alcuni, di condividere il percorso universitario. L’idea di sviluppare un documento che desse loro uno “spazio di racconto”, quindi, è nata da una conoscenza, già formata, che ci avrebbe dato la possibilità di riflettere, e poi produrre, in un clima di fiducia, simpatia e cultura condivisa, un lavoro audiovisivo. Caratteristiche, queste, fondamentali per il nostro metodo di lavoro. In fase di scrittura abbiamo avuto modo di approfondire la conoscenza della comunità eritrea, la storia che lega questo Paese all’Italia, il periodo coloniale, il regime, la diaspora, gli sbarchi, fino a tornare a loro, Dawt, Feiben e Maricos, in effetti identità ibride, come la scrittura e il linguaggio visuale scelto per Beles.

L.I.

La scelta non è avvenuta aprioristicamente. Conoscevamo i tre protagonisti perché, per motivi diversi, ognuno di loro aveva fatto già parte delle nostre vite, frequentando luoghi che appartengono alla nostra quotidianità. Il fatto che fossero di origine eritrea è venuto dopo. Non c’è stata subito la ricerca della provenienza: prima sono venuti loro, le loro individualità. Insieme abbiamo ripercorso la loro storia ed è lì che è nato il film: facendo il lavoro di scavo nei ricordi è venuto fuori un universo parallelo, una comunità; non c’è dunque una scelta di campo nei confronti del popolo eritreo, ma è vero che toccando le vite di questi tre ragazzi, abbiamo toccato inevitabilmente la comunità eritrea di Bari.

S.H.

La comunità eritrea di Bari, oltre a essere una delle più numerose d’Italia, è molto presente nella vita della città. In un’ottica burocratica sarebbe in realtà scorretto definire lo status degli informanti come “eritrei di seconda generazione” in quanto per la maggior parte sono nati in Italia o hanno comunque risolto da tempo le rispettive vicissitudini personali legate alla cittadinanza. Più nello specifico, ciò che caratterizza i Beles è proprio il legame con quella che possiamo definire terra di origini, più che di origine. De-territorializzazione e diaspora sono processi che hanno segnato per i loro genitori, corpi attivi di quei flussi, momenti di creazione di immaginari specifici fatti di memoria e desiderio che i Beles hanno interiorizzato e sui quali informano quotidianamente frammenti del tessuto sociale barese. Beles - La stagione dei fichi d’india non racconta la diaspora del popolo eritreo attraverso lo sguardo dei tre ragazzi protagonisti, ma più precisamente ne racconta lo sguardo attento al cambiamento. Una identità ibrida sicuramente mediata dalla ricerca etnografica, dall’occasione filmica, dall’evento cinematografico che rende lo sguardo degli informanti, il carattere costituente del discorso, attuale su se stessi e i mondi che rappresentano.

Il corto è stato realizzato grazie al finanziamento del MIBACT che con il progetto Migrarti ha inteso selezionare 15 prodotti audiovisivi, presentati in concorso in un’apposita sezione all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, in grado di favorire la conoscenza delle culture dei nuovi italiani per superare paure, diffidenze e pregiudizi. Il bando ha riscosso un successo enorme, con migliaia di partecipazioni. È il segno tangibile della necessità contemporanea di raccontare queste storie?

M.R.

La necessità andrebbe dichiarata. Di cosa si ha bisogno? L’industria visuale, i media, i social, i virali, rischiano di strumentalizzare queste storie, facendo spettacolo in pasto al voyeurismo, alla noia e all’ipocrisia. L’argomento è delicato e le responsabilità del racconto anche. I fattori dinamici della caratterizzazione (gestualità, parlata dall’inflessione marcata, irruenza) del migrante, hanno attinto dalla realtà, cristallizzandola immediatamente in un’iconografia che ha nutrito un immaginario vero e proprio. Questo processo nel cinema è stato raccontato soffermandosi sulla narrazione della disillusione, vista dall’esterno in un approccio di cinema latamente sociale, stereotipato e paternalistico che ha sempre segnato la messa a fuoco del cammino della speranza degli emigranti nell’ottica della sofferenza cui si va incontro attraverso le difficoltà di comunicazione, del trovare lavoro o amicizie. Quello che Inuit tenta di fare è lavorare con il soggetto rappresentato, scegliere il metodo insieme, per una forma di appartenenza del proprio. Migrarti ha offerto una vetrina importante a tanti progetti che hanno saputo riflettere, in ottiche differenti, sulla forma e non solo sul contenuto.

L.I.

È il segno che qualcuno vuole che se ne parli, che si è giunti a comprendere che scegliere verso chi puntare i riflettori è scelta inevitabilmente etica e politica. Di sicuro, però, non basta. Il problema non è solo portare la società civile a invertire lo sguardo, ma capire anche, tecnicamente, come farlo.

Questo bando è stato una grande opportunità per confrontarci con altri che condividono i nostri interessi; ci siamo accorti, però, proprio grazie al confronto, che manca un “approccio” tecnico alla tematica della rappresentazione audiovisuale degli stranieri, una scelta sul modo di comunicare. Migrarti ha rivoluzionato a livello istituzionale un settore spesso relegato alle nicchie degli operatori sociali, ma molto ancora bisogna fare per non scivolare nella retorica della commiserazione del “diverso”, che ha il rischio di essere controproducente rispetto all’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica verso queste tematiche, soprattutto perché occorre proporre stimoli per chi ne ha realmente bisogno. Se il cinema ha un potere educativo, è la capacità di insegnare a comprendere: spesso c’è molta confusione, però, tra educare a comprendere e autocelebrare il dolore.

Deleuze parlava di de-territorializzazione e ri-territorializzazione per descrivere l’esperienza filosofico-esistenziale degli erranti, dei profughi, dei peregrini. I confini tra territorio e terra, tra i territori che attraversiamo e quelli che possiamo chiamare “casa” sono sempre più labili e lo stesso può dirsi delle nostre identità. L’arte aiuta a ri-territoriallizare e il racconto a ricercare la propria identità?

M.R.

Il concetto di appartenenza in relazione con l’espressione audiovisuale è stato il punto di partenza, un rapporto alla ricerca di una identità, poi trasformatosi nel prodotto Beles. Una intervista biografica sotto forma di dialogo, la tecnica della mosca-sul-muro, la fiction, l’infondere un tema e renderlo libero: un percorso labile, proprio come il rapporto tra individuo e collettivo, la ricerca della simulazione di uno stato, unico e rapportato agli altri. La ri-territorializzazione diventa in continuo movimento.

L.I.

Questo è uno dei temi che ci sta più a cuore. Pensiamo che il racconto di sé sia la chiave per la ricerca del senso e dell’identità. Ognuno di noi ha bisogno di raccontarsi una storia per dare senso alla propria identità e questo lavoro, fatto sul grande schermo, può essere uno stimolo per ritrovare in se stessi chiunque Altro. Tutte le tradizioni filosofiche hanno in comune la metafora del percorso verso una meta: il viaggio dell’eroe è il viaggio di ognuno di noi verso se stesso. Per questo pensiamo che non abbia senso un errare che valga solo per qualcuno, così come non ha senso rappresentare l’identità come valore forte, dogmatico e connotato. Per noi ha senso partire da un frammento alla ricerca dell’insieme: è l’unico modo per non dimenticarci che ogni storia è solo una versione di quella cosa che chiamiamo verità.

Il cinema in particolare, prodotto della modernità e quindi testimone delle diaspore novecentesche, ha rivestito un ruolo importante in questo percorso identitario e Inuit è ben consapevole delle potenzialità dei mezzi audiovisivi nell’auto-rappresentazione e in quella dell’Altro. Qual è il vostro modus operandi?

M.R.

Ripensare all’evoluzione del cinema etnografico, tenendo conto della frammentarietà della lente che inquadra. Il metodo dell’autorappresentazione vuole mostrare come i percorsi identitari differenti e le diverse interpretazioni di sé e del mondo aiutino a sconfiggere gli stereotipi e rendano possibile un diverso modo di relazionarsi con l’alterità, producendo un effetto di riconoscimento nell’altro attraverso somiglianze e differenze. Questo approccio vuole puntare al riappropriarsi dello strumento di racconto, cercando di comunicare se stessi in forma autentica e libera.

L.I.

Il nostro modus operandi è un insieme di modus operandi in cui non c’è mai rigidità tecnica, quanto piuttosto un substrato comune, una condivisione sulle priorità da avere a mente prima di operare. Queste priorità non sono delle risposte, ma delle domande da cui partiamo sempre: perché stiamo raccontando questa storia? Come la stiamo raccontando? A chi è destinato questo racconto e quali effetti produrrà sullo spettatore?

Non possiamo fare a meno di relazionarci: da qui inizia la ricerca di tutto ciò che dal punto di vista teorico, sensoriale ed esperienziale può farci capire meglio di cosa stiamo parlando. In questo ci vuole meraviglia, interesse, capacità di lasciarsi coinvolgere e di saper ascoltare.

La tecnica audiovisuale viene alla fine: si tratta di utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione per restituire visivamente il percorso che abbiamo fatto e le persone che abbiamo incontrato. Ogni nostro film, infatti, ha uno stile completamente diverso, ma in tutti è possibile trovare dei valori precisi, delle domande dalle quali siamo partiti.

Voi definite Beles come un progetto di ricerca di antropologia visuale. Agli albori del cinema etnografico, Robert Flaherty, il primo grande documentarista della storia del cinema, chiedeva agli eschimesi (di cui gli Inuit sono per coincidenza uno dei principali gruppi etnici) di mettersi al di là della macchina da presa, senza partecipare. Poi con la lezione di Malinowsky, Jean Rouch, antropologo e regista francese, fondatore del concetto di cinema veritè, ha cominciato a parlare di antropologia condivisa, di film come relazione e di “controdono audiovisivo”. Qualcosa da donare ai soggetti ripresi, già coinvolti attivamente come tecnici, attori o narratori, una volta concluso. È questa la filosofia di Inuit?

S.H.

Beles è un progetto multidisciplinare che trova nell’antropologia visuale il suo cuore contenutistico. L’approccio non autoriale si fonda sulla mediazione, sulla proposta condivisa di contenuti, sulla partecipazione alla definizione delle forme di rappresentazione audiovisuale. In Beles il rapporto con gli informanti non è paritario: è presente anche la fiction fra i registri narrativi, con una regia e con una produzione. Si è dunque deciso di rendere manifesto questo rapporto fra stili per demistificare le relazioni di potere fra le componenti della rappresentazione. La ricerca antropologica alla base di questi processi inverte il rapporto fiduciario fra cinema ed etnografia, appropriandosi dei linguaggi cinematografici, utilizzando le narrazioni prodotte attraverso il dialogo sociale per creare discorsi pubblici non egemonici su quelle che la cultura eurocentrica di questa parte del globo considera “minoranze”. Flaherty è una provocazione, Rouch un possibile punto di partenza. Penso che il cinema verité esprima la propria carica innovativa nel contesto storico della de-colonizzazione e dell’immediato post-colonialismo. Ad oggi il motore storico della contemporaneità è mosso dagli -orami di flussi etnici, finanziari, tecnologici, mediatici e ideologici che alcuni chiamano globalizzazione. Le forme culturali e il visuale in particolare, anticipano la storia perché forniscono gli strumenti per vivere in veste attuale il passato.

L.I.

La filosofia di Inuit è la restituzione del racconto, ossia che coloro di cui raccontiamo la storia possano innanzitutto riconoscersi in ciò che stiamo rappresentando di loro, magari riuscendo anche a vedersi sotto altre prospettive che non avevano immaginato. L’autorappresentazione non è infatti autocelebrazione, bensì un lavoro di riconoscimento di se stessi, in cui l’Altro è ritrovato prima di tutto dentro di sé. Quando nel 2013 abbiamo scelto il nome “Inuit” è stato perché della storia del cinema etnografico ciò che ci ha più colpito è il triste destino del povero Nanook, il protagonista del più famoso film di Flaherty, vittima di una umiliazione senza possibilità di replica. Si trattava di un eclatante caso di protagonismo senza partecipazione. E’ questo che cerchiamo di evitare: quella dichiarazione d’amore solo teorica sul valore della partecipazione, che non corre poi il rischio di sporcarsi le mani con la realtà e la continua scoperta della propria ignoranza nei confronti dell’altro.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 06/10/2016

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