Alias Grace (L’altra Grace)

Dopo The Handmaid's Tale un nuovo ricchissimo adattamento da Margaret Atwood

Il processo di trasposizione dalla pagina scritta al linguaggio audiovisivo è un’operazione estremamente interessante ma carica di insidie, in cui viene per forza di cose perso qualcosa dal punto di vista del contenuto (ed è per questo che si usa il termine riduzione) ma vi è anche un guadagno dal punto di vista espressivo, grazie alle possibilità offerte dalle immagini in movimento. Da molte parti si è detto che questo 2017 è stato l’anno di Stephen King per via di una grande quantità di sue opere adattate, dalle quali sono stati tratti dei fallimenti commerciali (La torre nera), dei successi al botteghino strepitosi (It) e dei film dalla messa in scena originale (Il gioco di Gerald), delle serie televisive mediocri (The Mist) e delle altre che tutto sommato sono riuscite a portare a casa il risultato (Mr. Mercedes). Parallelamente però è stato anche l’anno di Margaret Atwood, autrice canadese molto meno prolifica di King, ma dal cui The Handmaid’s Tale Hulu ha creato l’omonima serie televisiva che ha vinto i principali Emmy lo scorso settembre.

Un po’ più in sordina e sovrastata dalle tante serie in uscita in questo ricco autunno televisivo arriva Alias Grace, miniserie in sei episodi da quarantacinque minuti tratta anch’essa da un romanzo di Atwood, che a sua volta era tratto da un episodio reale, ovvero la condanna per omicidio di una cameriera di origine irlandese nel 1843.

Lo show è una co-produzione che vede da una parte la televisione nazionale canadese e dall’altra Netflix, e pertanto è in un primo momento andato in onda settimanalmente sulla CBC per poi essere diffuso all-in-one sul colosso digitale (in Italia è stato distribuito con il titolo L’altra Grace). Si tratta di un’opera dall’impronta fortemente femminile e che sulla carta intende puntare in alto mettendo sul piatto il meglio della cultura nazionale e facendo leva in particolare sulle qualità di quattro donne: oltre alla materia prima di Atwood infatti vanno segnalate Sarah Polley, Mary Harron e Sarah Gadon. Polley, artista canadese polivalente che ha lavorato come attrice, sceneggiatrice e regista, ha scritto tutti gli episodi, adattando il romanzo in sei densissimi segmenti. A mettere in scena gli script c’è Mary Harron, altra interessante figura del panorama canadese che nel corso della sua carriera è stata giornalista cinematografica, critica musicale oltre che regista e sceneggiatrice, dando vita a opere di chiara impronta femminista come I Shot Andy Warhol e The Notorious Bettie Page. In ultimo, l’alta qualità di Alias Grace è frutto delle doti interpretative di Sarah Gadon, la quale riesce a offrire una performance estremamente sofisticata, grazie anche a un uso della voce capace di restituire tutte le ambiguità del personaggio.

Alias Grace è una serie che fin dal suo concept dimostra una notevole maturità, in particolare per quanto riguarda l’ambizione di ragionare in maniera approfondita sui meccanismi del racconto, oltre che sul soggetto rappresentato.

Le autrici sembrano voler riflettere su cosa vuol dire narrare e sullo statuto di verità che possiedono i racconti nel momento in cui a narrarli è un essere umano. Si tratta di una questione toccata da diverse serie negli ultimi anni, forse proprio perché a uno spettatore sempre più consapevole e capace di distinguere i prodotti televisivi l’industria ha risposto con un’attenzione particolare per il meta-racconto. Una serie come The OA, ad esempio, basa gran parte del proprio fascino sull’inaffidabilità del narratore, visto il coinvolgimento totale della protagonista all’interno delle vicende narrate. Un altro dei lavori più interessanti degli ultimi mesi, Mindhunter, è quasi completamente impostato su una serie di interviste ai serial killer, i quali letteralmente rievocano le proprie efferate gesta dando vita (tanto agli occhi dei personaggi principali così come a quelli degli spettatori) a uno storytelling estremamente suggestivo, per quanto tutt’altro che affidabile.

Alias Grace, dal canto suo, è per buona parte un faccia a faccia tra la protagonista e il dottor Simon Jordan, il quale, incaricato dalla Chiesa Metodista di diagnosticare se Grace sia o meno affetta da “isteria”, colloquio dopo colloquio rimane sempre più catturato dai discorsi della donna, per la quale sviluppa un desidero sentimentale e sessuale che le due autrici mostrano attraverso la proiezione dei suoi pensieri. Si assiste così a una sorta di detection che attraverso le sedute mostra la storia di Grace Marks e le vicende legate alla morte di Thomas Kinnear e Nancy Montgomery.

La prima stagione di The Handmaid’s Tale ha riscosso un successo enorme, riuscendo a intercettare i non appassionati di racconti dal taglio fortemente femminile grazie a una narrazione distopica dal design originale, e coloro che non sono a proprio agio con i what if fantascientifici grazie a un’acuta riflessione sulla condizione femminile. Alias Grace fa un lavoro molto diverso, solo apparentemente più convenzionale ma in realtà finanche più raffinato. Il successo di The Handmaid’s Tale è dovuto anche alla messa in scena di un futuro possibile e quindi al patto con lo spettatore secondo cui anche le cose più atroci, per quanto verosimili, non sono in realtà (ancora) accadute. Per converso la potenza di Alias Grace sta nel coraggio di riflettere sull’oppressione della donna e sul maschilismo nella società occidentale configurando non uno dei tanti futuri possibili ma il passato, mettendo in scena un mondo in cui tutto ciò che si vede è già ampiamente accaduto. In questo modo il patto con lo spettatore è molto diverso perché se nel primo caso il senso di colpa o comunque la riflessione autocritica erano almeno in parte sospese o mitigate dall’ambientazione nel futuro, qui l’indagine delle medesime tematiche è legata a un tempo che ha tutti i tratti della distopia, ma che in più è tutt’altro che irreale.

Le autrici sono estremamente precise nel riflettere sull’amicizia femminile e sull’energia che questa può infondere quando ogni speranza è persa, quando già in partenza ci si pone dal punto di vista delle vittime, rinchiuse (come le protagoniste, ma per estensione anche come tantissime donne nel passato e nel presente) in una condizione di sottomissione costante, prive di ogni forma di potere. Ogni rapporto uomo donna viene mostrato nella serie come una relazione di potere che vede maschi bianchi fare il bello e il cattivo tempo nei confronti di donne di tutte le età, forti di privilegi che appaiono così inossidabili da essere percepiti come parte integrante dell’equilibrio sociale di quell’epoca. Se la distopia è un meccanismo narrativo utilizzato per riflettere sul presente attraverso un futuro possibile, in questo caso l’utilizzo del passato ha lo stesso identico scopo: siamo così sicuri che le cose siano cambiate così tanto? Quante spettatrici hanno provato empatia nei confronti dell’impotenza di Grace Marks di fronte agli uomini che ha conosciuto? Polley e Harron sono eccezionali nel mostrare nei dettagli questa condizione, così come lo è Gadon nel trasmettere con intensità le emozioni della protagonista.

La serie costituisce una profonda riflessione sui rapporti tra individuo e collettività all’interno di una società intrinsecamente maschilista, in cui le cameriere sono trattate come delle schiave, in cui il corpo della donna è terra di conquista da parte degli uomini, i quali sono spesso dipinti come dei predatori a caccia di purezza e innocenza, incuranti delle conseguenza sul corpo e sulla psicologia delle donne che incontrano perché completamente privi di empatia e certi di rimanere impuniti.

Polley scrive con rara maestria il crescere dell’amicizia tra Grace Marks e Mary Whitney, un legame alimentato da un affetto tale da fare da parziale cuscinetto alle sevizie subite dalle due, grazie anche alla fantasia alla quale entrambe si affidano (si pensi alla buccia della mela o al ruolo delle finestre).

L’altro cruciale rapporto della serie è quello tra Grace e Nancy, grazie al quale le autrici riflettono sull’insensata competitività tra donne che la società impone attraverso processi di oggettificazione costanti che portano le dirette interessate a vivere la trasformazione fisica in modo spesso drammatico. Come ogni oggetto del desiderio, le donne della serie sono spesso sole in mezzo a occhi e corpi maschili, tanto da sentirsi minacciate all’arrivo di altre donne, proprio come Nancy all’arrivo di Grace. È di brutale spietatezza, a questo proposito, il ritratto che viene offerto della gravidanza, vista come mero effetto collaterale del desiderio da molti uomini e come inizio di un’incontrovertibile parabola discendente da altrettante donne, soprattutto perché private di quella purezza che le rendeva desiderate, mentre ora sono proiettate verso una vita di sofferenze se non verso la morte.

Una delle parole chiave per leggere la serie è ambiguità e su questo le autrici, aiutate dallo splendido lavoro dell’attrice protagonista, costruiscono passo dopo passo un personaggio sempre più enigmatico, progressivamente più in bilico tra innocenza e colpevolezza; una donna che da una parte dichiara tutta propria la fragilità presentandosi inerme nelle mani di diversi uomini (come viene mostrato anche in un suo sogno), dall’altra svela la sua identità duale. Solo una volta completato il quadro viene fuori il senso profondo della serie dando pieno significato al titolo. La parola alias infatti rimanda alla natura ormai irrimediabilmente duplice della protagonista, data dall’insieme di fantasmi generati dalle paure e dai traumi subiti nel corso degli anni. La malattia mentale di Grace emerge come l’unica autodifesa possibile dal mondo in cui è immersa, un lato oscuro necessario non solo per ragioni auto-conservative ma anche per mettere alla berlina l’ipocrisia altrui e denunciare le ingiustizie di cui è stata vittima.

Paragonata da tutti a The Handmaid’s Tale per affinità di contenuti e per via dell’autrice da cui entrambe le serie prendono le mosse, Alias Grace si afferma come una serie molto più autoriale, meno interessata a strizzare l’occhio allo spettatore affamato di cultura pop (si vedano le scelte musicali della serie di Hulu) ma più sofisticata nella scrittura e dotata di scelte di regia più legate alla poetica della regista. La parabola della protagonista ricorda da vicino infatti quella di Valerie Solanas, per quanto riguarda la messa all’angolo di ogni ambizione e di qualsiasi tentativo di autodeterminazione, ma anche quella del protagonista di American Psycho per la rappresentazione della metà oscura come prodotto di una pesantissima oppressione sociale.

Non è semplice adattare un romanzo ambientato nell’Ottocento e trasformarlo in una serie televisiva in grado di trattare questioni urgenti e necessarie, ma Sarah Polley, Mary Harron ci sono riuscite in pieno, facendo di Alias Grace uno degli show più interessanti degli ultimi mesi.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 09/11/2017

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