Affliction

L’ossessione di un parricidio affogata nel biancore della neve: Paul Schrader e la famiglia, il rimpianto, l’ereditarietà.

Un mondo di padri e figli, di fratelli, di figure femminili dissolte o evanescenti: il passato ritorna a galla come una maledizione biblica. Affliction, già nel 1997, faceva il punto sul cinema schraderiano e sui legami familiari. L’afflizione del titolo diventa la condizione esistenziale delle figure di Paul Schrader, il loro modo di stare al mondo. Il corpo pesante di Nick Nolte, lo sguardo duro di James Coburn, l’inquieta lucidità di Willem Dafoe: un trittico familiare in cui ogni figura si specchia nell’altra sino ad identificarsi, acquisendo geneticamente il medesimo peccato. Come da tradizione cristiana, il male è ereditario.

Paul Schrader viaggia all’interno del cuore instabile di Wade Whitehouse, poliziotto di un paesino di provincia. Il biancore accecante della neve irraggia lo schermo, schiaccia la profondità di campo, intrappola lo sguardo in un presente privo di prospettive: ogni esterno pare un interno di cupissimo algore. Non c’è futuro nella vita di Wade, solo la reiterazione avvilente di un passato che non lascia mai la presa. I filmini di famiglia sono espressioni sadiche di rapporto paterno, in cui il padre strepita ubriaco contro il piccolo Wade e Rolf. Questi fratelli inseparabili, in comunione telepatica, riflettono affezioni e turbamenti l’uno nell’altro: si chiamano nelle notti più buie, si cercano tra le pieghe del tempo. Tanto Wade è impulsivo, irruento e passionale, tanto Rolf è matematico, distante, lucido. Il desiderio di un parricidio anima tutto il film superando qualsiasi altra ipotesi narrativa: le strade del giallo si tingono di bianco per rammemorare peccati ancestrali. Il complotto - ma il cinema di detection tutto - sono puro pretesto per dimenticare. Wade deve proteggersi dai demoni che lo attanagliano, per farlo ha bisogno delle storie, degli intrighi, di residui noir in pieno giorno. Ma quando questi si rivelano false piste, la nevrosi sottopelle ritorna a galla, insinuandosi in Wade fino ad esplodere nel caos della caduta libera: ogni legame va a rotoli. Perde il lavoro, il rapporto con la figlia si deteriora in maniera irreversibile, allontana da sé tutte le persone che gli stanno intorno (il personaggio angelico di Sissy Spacek, vera e proprio angelo capace di amare senza ottenere nulla in cambio).

Wade rimane solo e l’unica possibilità di dialogo si rivela col padre: lo ritrova nell’odio forsennato, nei fiumi di alcool e perfino nell’istinto irrefrenabile di ucciderlo. Schrader conserva, riformula, aggiorna le radici calviniste del suo cinema per raccontare in fondo l’ultimo bagliore del giorno. Quel momento stesso in cui si perde la luce e gli occhi scavano oltre le frontiere alla ricerca di una nuova vita, intravedendo un oceano di rimpianti: siamo nel sogno di una grazia mai ricevuta, di un dono mai trovato, nel rimpianto di aver perduto tutto, perfino se stessi.

E’ un perdente, Wade, come perdenti sono tanti personaggi del cinema di Schrader (pensiamo solo all’ultimo, indimenticabile Ethan Hawke di First Reformed, curato kamikaze graziato da un angelo). Questi perdenti con le facce da duri si rivelano troppo fragili per stare al mondo: corrosi dal sentimento, abitati da un dolore che nessuno potrà mai estirpare. La giustizia è solo l’abbaglio di chi si illudeva di poter discernere bene e male. E alla fine il chiarore abbacinante della neve viene riscaldato dal fuoco: ad incendiarsi è la vita di Wade, il suo passato, l’idea di un Padre che già sa e ha sempre saputo. Ora, e solo ora, il figlio è libero dal Padre: sacrifico freudiano che tanto somiglia a un deicidio, per ritrovare il tempo perduto.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 17/11/2017

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