A Brighter Summer Day

di Edward Yang

L'opera più sfuggente e affascinante di Edward Yang, un palinsesto di storie e film sulla natura stessa della modernità.

Brighter Summer Day recensione film Edward Yang

Il cinema di Edward Yang, mai aggrappato su rassicuranti costanti stilistiche o tematiche, procede per variazioni sul tema e impreviste incursioni in nuovi territori dell’immagine cinematografica.

A Brighter Summer Day è l’unico film storico di Edward Yang, ambientato in quegli anni Sessanta di vorticose trasformazioni sociali ed economiche che hanno cambiato per sempre il volto e l’identità di Taiwan. Dopo la decostruzione del cinema e dell’identità individuale operata nelle opere precedenti e in particolare in The Terrorizers, il regista taiwanese vira in direzione del dramma e del romanzo ottocentesco ambientato nella frattura tra la società tradizionale e la modernità.

A Brighter Summer Day si ispira a un episodio di cronaca nera particolarmente controverso nella storia di Taiwan, l’omicidio compiuto da un ragazzino ai danni di una coetanea. A Yang non interessa il punto di arrivo, ma l’insieme delle storie collettive e individuali in cui questo gesto inspiegabile è germinato. Al centro di tutto, come sempre, c’è la famiglia: Xiao S’ir, il protagonista, è una delle tante voci all’interno di un contesto corale che include padri sospettati di avere rapporti con la Cina comunista, fratelli affascinati dalla cultura occidentale e dalle sue icone (la voce di Elvis come veicolo di una fiducia verso il futuro e il cambiamento), madri e sorelle che cercano di immaginare senza successo una possibile, nuova identità femminile e famigliare. Il nucleo famigliare e la casa sono l’epicentro da cui la narrazione si estende a dismisura fino ad includere le strade della città e le sue eterotopie urbane, dalla scuola agli studi cinematografici.

Lo sguardo di Yang cerca di raccogliere i frammenti di un mondo troppo complesso per essere raccontato “dall’alto”, con una prospettiva che non vuole essere storica ma farsi storia attraverso il lavoro dello sguardo e l’accumulazione delle storie individuali.

C’è un’inquadratura che racchiude perfettamente la prospettiva “dal basso” di A Brighter Summer Day: Xiao S’ir discute con la ragazza di cui si è innamorato e delle loro prospettive inconciliabili in un falso campo/controcampo frontale (i due ragazzi non si guardano, sono entrambi sullo stesso lato della strada) mentre in primo piano, sfocati, avanzano i carri armati dell’esercito. I tasselli della storia si accumulano e si sovrappongono, talvolta in ripetizioni ritmiche: le sequenze scolastiche nelle quali il protagonista gioca a basket, le ribellioni disciplinari, un rapporto tra padre e figlio che muta e si incrina nello spazio di una carrellata tra casa e scuola. Abbracciare tutto questo materiale nello spazio di un film richiede un approccio che non può più limitarsi allo studio del rapporto tra città e coppia di Taipei Story, o alle relazioni impreviste e casuali tra atomi sociali al centro di The Terrorizers. L’unica strada possibile è quella di un cinema onnivoro e romanzesco, che parte dalla famiglia e dal privato per aprirsi in ogni direzione. Il risultato è un film debordante e scisso, un collage che aspira a farsi ritratto di un’epoca senza nascondere le giunture e le sovrapposizioni tra cinema storico, sperimentalismo europeo, dramma famigliare giapponese e molto altro. L’immagine forse più adatta a descrivere questo processo creativo è quella del palinsesto, della riscrittura continua e necessaria ad afferrare una Storia che non è mai statica cartolina del passato. Questa tensione tra il romanzo e la sua decostruzione, tra l’incedere capitolare di un serial TV ante litteram e la sua negazione, viene accolta dall’autore in tutta la sua problematicità con risultati straordinariamente stimolanti.

Anche le incursioni verso Hollywood non mancano in un film che vuole raccontare come l’Oriente abbia incontrato l’Occidente nelle camerette dei ragazzini e nelle voci di un panorama mediatico allora solo larvale. Il personaggio di Honey, in particolare, pare racchiudere in pochi minuti tutte le tensioni e la ribellione dei personaggi di Gioventù bruciata. Leggendo un romanzo ottocentesco, Honey si pone delle domande nuove e percepisce, come Xiao S’ir, di essere travolto dalla storia. Come Xiao S’ir, cerca di resistere alla marea, senza successo.

Come in tutti i film dell’autore, siamo travolti in un vortice di crescita economica e ridefinizione identitaria. I tentativi di comunicazione sono raramente soddisfacenti e i corpi si accostano senza toccarsi, separati da barriere fisiche e simboliche. In questa atmosfera soffocante Xiao S’ir si fa carnefice, ma la natura del suo atto di violenza non si fa meno oscura e ambigua. L’omicidio non è l’ennesimo atto di ribellione: sembra più un atto di resa e di disperata irrazionalità da cui l’autore sembra suggerisci di ripartire, a ritroso. Meglio non guardare il dito, ma la Luna, e porsi nuove domande, andare più a fondo delle cose e dell’incertezza di fondo nella quale si muovono i suoi personaggi e che, in questo caso, è facilmente inquadrata nel clima di una Taiwan postbellica. Ma non lasciamoci ingannare dagli anni Sessanta: la prospettiva storica è autentica, ma la città (e il cinema stesso) è sempre testimone del presente.

Molti dei film di Yang si concludono con un omicidio o un suicidio: morti spesso lente, dissanguamenti al culmine di un percorso senza uscita. Violenze quasi rituali: morte come sacrificio. Violenze che, al tempo stesso, sono ineluttabili come processi chimici: la città sembra dissolvere i suoi abitanti. L’intero cinema di Yang, da questo punto di vista, può essere letto come un tentativo di resistere alla città: all’inevitabile presente e all’ingombrante presenza della città locale e globale, alla bellissima, orribile metropoli e alla sua velocità, alle casualità potenzialmente dirompenti e alle maree della Storia che, tra i palazzi di vetro, si aprono in cacofonie audiovisive. Il rigore del cinema di Edward Yang è uno strumento analitico per ordinare e andare a fondo di questa cacofonia; è un atto teorico e, insieme, un tentativo di resistere agli aspetti più deleteri della vita dello spirito metropolitano.

Yang non è un regista nostalgico e conservatore: al contrario, ha più volte sottolineato come gli influssi culturali dall’Occidente abbiano contribuito a svecchiare la società tradizionale e ad accendere la speranza per un futuro migliore. Quello che Yang propone è un’ecologia dell’immagine e una disciplina sociale e intellettuale per l’epoca postmoderna. Si tratta di un aspetto che diverrà ancora più evidente nei suoi film successivi e che raggiungerà il suo culmine in Yi Yi, vero e proprio atto di fede nei confronti di un cinema che pensa il presente filmando, un cinema che anticipa e libera lo sguardo.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 17/10/2016
Regia: Edward Yang
Durata: 237 minuti

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